ROBERTO FASSONE | MONTAGNE CHE DANZANO. IL VIDEO COME COREOGRAFIA

19 - 28 marzo 2021

Diario 2021 - 2022
Diario 2021 - 2022

 

Roberto Fassone come sala per lavorare a La Pelanda ha scelto il Teatro 1, lo spazio teatrale, una scatola nera con platea, e lo ha trasformato in un vero e proprio studio di montaggio video. Ha deciso di montare il suo video a doppio canale Pas de Deux su due schermi cinematografici, mettendoli in dialogo e trattando - appunto - l’immagine filmica come un passo a due di danza, il video come se fosse una coreografia. Questo aspetto ci ha subito interessato, il punto di vista di Roberto come autore non è quello del regista ma del coreografo. Quali possibilità si aprono con questo approccio? Un’indagine, quella condotta da Roberto, anche sulle modalità installative dell’opera.

Quasi alla fine della residenza, prima della conversazione che segue, Roberto ci chiama in teatro, per mostrarci i primi cinque minuti di Pas Seul, la versione monocanale di Pas de Deux.

 

(il seguente testo è da leggere mentre si ascolta Flower of Devotion dei Dehd. Io l'ho appena riletto e mi vergogno di molte cose che ho detto)

 

 
 

27.3.2021

 

Roberto Fassone: È una danza, un solo completamente astratto in cui ci sono dei momenti in cui avvengono dei giochi e dei rimandi, è molto meno esplicito rispetto al video a due canali che è più concettuale come costruzione e come relazioni. Qui ho pensato di fare come ha fatto Buñuel in Un chien andalou, va tutto bene, qualsiasi connessione è giusta. 

 

Ilaria Mancia: Mi piace l’idea che il lavoro monocanale inizi con l’atmosfera della fine dell’altro. Guardando questo mi sembra che nella prima versione del due canali ci fosse già un frammento del film Il Mago di Oz.

 

Roberto Fassone: È un film incredibile, in particolare il passaggio dal bianco e nero al colore che avviene con l’arrivo nel mondo di Oz.

 

Paola Granato: Di questo video di cui ci hai mostrato i primi minuti mi piace la sovrapposizione di realtà e finzione, che però è una finzione che imita la realtà. 

 

Ilaria: Cosa terrai dell’altro e cosa sarà nuovo?

 

Roberto Fassone: Quello che mi chiedo io è che cosa posso tenere dell’altro. Ad esempio, quello che ho tenuto per ora è il finale, che certamente è suggestivo. Se, ad esempio, usassi la parte del tennis qui, ho paura che non funzionerebbe per via della presenza di uno schermo solo. Magari potrei usare un altro tipo di sport. Ma devo capire se voglio mantenere la cornice concettuale di alcuni capitoli. Qui c’è il macro-capitolo, la cornice temporale. Secondo me quella struttura lì funziona solo sul doppio canale. La durata sarà la stessa ma è molto più freestyle. Perché dovrei usare le stesse cose con il rischio che risultino sacrificate? Credo sia giusto mantenere l’attitudine e rinunciare a delle cose belle che non riescono a esprimere tutto il loro potenziale. 

 

Paola Granato: Mi sembra che tutto questo discorso abbia a che vedere con un rigore nei confronti del linguaggio video. È un’altra cosa e quindi mi sembra giusto che lo sia fino in fondo. Trovo affascinante che ci sia una matrice generativa dalla quale possono essere estratte varie possibilità. Quasi un gioco di arte combinatoria. 

 

Ilaria Mancia: Però io mi porrei delle questioni, questo è lo stesso viaggio? Il singolo può fare lo stesso viaggio del doppio? Sono due traiettorie sorelle?

 

Roberto Fassone: La struttura è la stessa, entrambi partono con la stessa figura e poi viaggiano all’interno di mondi temporali. È interessante quello che dici, interrogarsi su chi fa il viaggio e sul perché prima il suo cervello funziona su due binari e poi da solo, ma credo abbia anche a che vedere con la moltitudine del trip.

Si chiama Pas Seul, è uno solo, l’altro è un passo a due. I due video hanno, però, la stessa matrice. Quando mi è stato detto che era importante avere anche una versione monocanale, ho pensato che volevo farlo proprio perché era una bella sfida. Mi interessa che un lavoro sul trip abbia due versioni diverse ma che si tratti dello stesso lavoro, che cambi per rendere l’idea che tutto può essere sempre diverso. Mi piace che non tutto debba essere immutato, ad esempio tra cinque anni potrebbe cambiare un capitolo di Pas de Deux.

Pas de Deux è cambiato tantissimo, questi cambiamenti fanno parte del mio processo creativo, i viaggi all’interno della materia che avevo a disposizione sono stati molteplici. Ho provato ad attuare un processo analogo a quello della scrittura automatica, in cui si scrive sotto dettatura, senza riflettere. Come può essere creato un video automatico? Oggi, di fatto, abbiamo la possibilità di farlo perché abbiamo a disposizione un archivio video e musicale infinito, con la possibilità di scaricare tutto e senza la necessità di girare. Questo metodo di lavoro, che definirei più surrealista, l’ho usato per Pas Seul. Pas de Deux è, invece, più strutturato.

Ho avuto un momento di frustrazione con Pas de Deux perché non è abbastanza libero come lavoro, ha una struttura forte. In Pas Seul ho pensato di allentare la costruzione della struttura, e vedere quale è il risultato, allo stesso modo in cui Buñuel e Dalì hanno lavorato a Un chien andalou. Buñuel racconta che il risultato era un’idea che veniva agita senza analisi critica. È un rischio grande che vale la pena assumersi se si è nello stato giusto. Per me Pas Seul è una danza improvvisata.

 

Ilaria: È come nella danza, se si è in due non hai libertà…

Parlavi del fatto che c’è talmente tanto materiale nel mondo che non c’è bisogno di girare, è una questione che ti stai ponendo al di là di questi lavori?

 

Roberto: Me lo sono sempre detto. Quando ero più piccolo ho sempre girato video. Mi ricordo che avevo un paio di compagni di classe che giravano in HD quando era ancora poco diffuso e in Full HD, che iniziava a essere una tecnologia nuova. Io mi dicevo che non sarei mai stato in grado di usare quella tecnica nel modo migliore possibile. Ci sono delle risorse da impiegare e cose da gestire che vengono prima dell’atto di girare che mi risultano macchinose.

Per come lavoro ho quasi tutto a costo zero, Infatti quando inizi a fare l’artista, non hai molte risorse a disposizione. Oggi, però, chiunque con Final Cut può fare un film e questa cosa mi esalta. 

Per questo progetto ho comprato un archivio di immagini video, ma ci sono anche archivi gratuiti. Il video che ho realizzato per il lavoro Alcune coreografie di Jacopo Jenna è stato realizzato con uno di questi archivi gratuiti.

È decisivo, sia nel mio lavoro video che in quello performativo, fare il più possibile con quello che si ha. È la condizione in cui fai uno sforzo per trovare le risorse e vengono fuori le cose più belle. Come fai se sei da solo in scena? Hai la parola, il tuo corpo, un registratore e della musica.

Questo nasce non tanto da una questione politica, ma da una questione di paura e di controllo. 

Quando sono andato in scena a teatro ero costantemente in difficoltà perché tutto l’impianto era troppo da controllare per me. Se penso al mio prossimo lavoro performativo vorrei fare qualcosa che contempli solo me stesso in uno spazio aperto. Mi ha sempre affascinato l’approccio di Sara Leghissa e Strasse. Non c’è impianto ma è basato su un’idea molto forte.

 

Ilaria Mancia: Rispetto al mio percorso personale, il fatto di avere visto fin da piccola dei lavori teatrali e di danza molto importanti mi ha bloccato. Mi chiedevo che cosa si potesse ancora fare. Credo che la capacità artistica stia nel fatto di capire come ci si pone rispetto a questo tutto, come vivificare l’archivio che c’è e non può essere negato. 

 

Roberto Fassone: Kenneth Goldsmith, che cito spesso, ha scritto dieci anni fa Uncreative Writing e il libro inizia così: c’è già tutto, perché dovremmo aggiungere cose al mondo? Questo lo aveva detto prima Douglas Huebler. Quando ne parlava si riferiva al concetto di sottrazione, da qui le scritte sui muri o le istruzioni. Goldsmith usa invece la ricombinazione di materiali. Anche i dadaisti la usavano.

Parlando di paura e pensando a questo lavoro, ho sempre pensato che gli artisti citati potessero accusarmi di non aver chiesto il permesso di usare il loro lavoro.

Ho cercato poi di uscire da questo meccanismo, non lo faccio a scopo di lucro ma perché amo il loro lavoro.

Non chiedo il permesso perché è probabile che non mi venga accordato, ma il mio lavoro è più importante (rileggo questa riga e penso di aver detto una stronzata) . È complesso. Duchamp è il mio avvocato. Se qualcuno usasse delle cose del mio lavoro non avrei problemi, se me lo dicesse sarei più contento, ma questo nella prossimità avviene. Nel mio video c’è un lavoro di Cesare Pietroiusti e gliel’ho detto. Così come ho fatto con altri artisti che sono nella mia orbita. 

 

Ilaria Mancia: Big Art Group, con cui ho lavorato, ha sempre usato immagini video nei loro spettacoli, ribaltando, usando, citando. Con loro è stato sempre molto bello parlare di copyright. Per loro oggi non può esserci più questo concetto. Ogni volta che facevano i laboratori con i giovani creavano la situazione affinché si potessero rubare le idee. L’idea, quindi, non è più di nessuno e quando viene messa in campo la proprietà perde valore.

 

Roberto Fassone: Questo è un discorso più delicato che tocca l’artisticità e l’autorialità. Rubare un’idea è strano.

 

Ilaria Mancia: Forse non bisogna parlare di rubare, una volta che un’idea è nel mondo è libera di girare.

 

Paola Granato: Credo diventi fondamentale la questione del “come”.

 

Roberto Fassone: Alla fine, è una questione più umana.

 

Paola Granato: In questo lavoro c’è tutta la filosofia del montaggio cinematografico.

 

Roberto Fassone: Leggevo che quando hanno fondato la scuola di Mosca, che è stata la prima scuola di cinema, non avevano pellicola, e, non potendo comprare pellicola, avevano preso tutte quelle di Griffith dagli Stati Uniti. Le tagliavano e le ricombinavano come esercizio in classe. Quindi questo esercizio di ricombinazione era già presente, oggi si è aperto. Il montaggio era un’arma più forte del resto: più forte dell’immagine in sé, era come queste immagini stavano insieme.

 

Ilaria Mancia: Come continuerai a lavorare sul monocanale?

 

Roberto Fassone: Starò a casa, mi metterò in una situazione di rilassamento con video e musiche che voglio usare e proverò ad andare in freestyle. Il giorno dopo lo riguarderò capendo che cosa funziona e cosa no. In questi giorni di residenza ero in una fase più operativa, non ho fatto creazione e non ho avuto un pensiero divergente. In un’ottica più di creazione, con uno schermo così grande, il mio approccio sarebbe stato diverso. La cosa difficile nella situazione di lavoro a casa è che poi bisogna tornare alla vita vera. Quando sono in una fase di creazione mi si aprono connessioni che solitamente non ci sono, sono quelle connessioni deboli - che non sono esplicite - ma che sono alla base dei miei lavori più importanti. Le scrivo di getto e quando le rileggo non mi sembra neanche di averle scritte io, le prendo più come un regalo. C’è uno stato che riesco a raggiungere, in cui riesco ad avere intuizioni importanti sia a livello lavorativo che personale

 

Paola Granato: Quando monti il monocanale, torni ai materiali o torni a Pas de Deux?

 

Roberto Fassone: Torno a Pas de Deux per quanto riguarda i macro-capitoli e la questione temporale. So che ci sono delle parti che mi piacciono molto e allora vado direttamente lì, ma c’è anche molto scarto. È aperto, può succedere ancora molto.

 

Paola Granato: Profezie, questa pubblicazione artigianale che ci hai lasciato nei tuoi giorni di residenza da sfogliare, è il tuo grimorio?

 

Roberto Fassone: Profezie e Pas de Deux/Pas seul sono contemporanei e sono iniziati con il lockdown. All’inizio della pandemia tutti ricordavano il Decameron e ho iniziato a pensare a un’idea al giorno di opere da realizzare, poi, però, sono voluto uscire da questo schema matematico. Ho sempre avuto il problema che molti miei lavori non avevano la dignità di essere opere, come se non fossero abbastanza. Dare a ciascuna idea la dignità di essere messa su una pagina e metterle tutte insieme mi ha liberato. Non voglio mettere un’idea singola in un lavoro o in una mostra, il mio lavoro è fatto di tanti frammenti messi insieme. Affermando che un’idea può essere un’opera, vado anche contro tutta l’arte contemporanea e ciò che insegno agli studenti. Mi infastidisce la figura dell’artista genio che ha un’idea che merita tutta l’attenzione. Ritengo che il mio pensiero sia molto più frammentato, più fluido. Penso al lavoro di De Dominicis o a quello di González-Torres. Mi piace di più creare dei mondi. Questo approccio è molto vicino all’opera video di cui abbiamo parlato, all’interno ci sono delle cose che sono opere in sé o lo diventeranno. È difficile liberarsi da quest’idea dell’opera, dell’oggetto concluso.

Il libro è realizzato in casa e sto cercando di farne più copie. Volevo che fosse qualcosa di prezioso che si notasse l’artigianalità.

È un grimorio. Dentro c’è quest’opera che non ho mai reso pubblica, un archivio di magie della Disney nel momento in cui avvengono, per capire che cosa succede in quel momento lì. Mi interessava l’estetica con cui la magia è rappresentata, trasformazioni e sparizioni. 

 

Paola Granato: I materiali che hai usato in Pas de Deux/Pas seul non hanno per te un valore concluso, come se le avessi già usate?

 

Roberto Fassone: È una questione importante, adesso che sono qui potrò usarle di nuovo? Io credo di si, c’è la possibilità che possano essere usate altrove.

 

Paola Granato: È come se fosse un archivio di opere in potenza?

 

Roberto Fassone: Non mi vieta nessuno di prendere un lavoro che è inserito in Pas de Deux e metterlo da un’altra parte. Quello che ti blocca è l’idea del sistema in cui si lavora, in cui tutto ha un titolo, una data, la vendita, il possesso. Kanye West, prendeva i suoi master, cambiava il disco e lo rimetteva su Spotify. 

Penso anche all’idea di aprirlo ad altri artisti, consegnare il progetto Pas de Deux, farne fare un remix da qualcuno, o far scegliere un’opera da Profezie e realizzarla 

 

 

A marzo 2022, Pas de Deux è stato installato al Mattatoio come parte della programmazione di

re-creatures, nel Teatro 1 sala dove è stato realizzato parte del montaggio.



 
 
 
 
 

Qualche tempo dopo una corrispondenza tra noi e Roberto Fassone 




Caro Roberto,

 

scrivere questa lettera sembra un gioco di scatole cinesi. Hai letto il libro di Herman Hesse Il lupo della steppa? Pare che sia il libro che ha convinto Walter Benjamin a provare l’hashish e poi a scriverci delle memorie, ha redatto dei verbali di questi suoi esperimenti tra il 1928 e il 1933. È probabile che tu li conosca, ma imbattercisi, in una piccola nota del suo carteggio con Scholem, è stata una sorprendente coincidenza. 

In un suo verbale del 1928 – sembra sia proprio il primo – Benjamin descrive questa sua passeggiata a Marsiglia il giorno dopo aver mangiato hashish. Il senso di solitudine – scrive - svanisce molto presto. Il mio bastone da passeggio comincia a procurarmi una gioia particolare. Il manico di una caffettiera con cui si usa versare la bevanda sembra all’improvviso grandissimo, e così rimane. [Si diventa ipersensibili, al punto di temere che un’ombra che cade sulla carta possa danneggiarla (...)] O ancora: Ecco manifestarsi i sintomi spaziali e temporali tipici del mangiatore di hashish, com’è noto, assolutamente grandiosi. Per chi ha mangiato l’hashish Versailles non è troppo grande, né l’eternità dura troppo a lungo. E sullo sfondo di questa dilatazione interiore, della durata assoluta e di uno spazio senza confini, uno humour meraviglioso e felice si sofferma sulle contingenze del mondo spaziale e temporale.

Sarebbe potuto entrare a La Pelanda, Walter Benjamin, in uno dei tuoi giorni di residenza, con il suo bastone da passeggio. Si sarebbe seduto di fronte ai due schermi danzanti, e, quasi certamente, il suo viaggio sarebbe stato simile a quello fatto a Marsiglia.

 

Nella nostra conversazione abbiamo spesso parlato del processo di creazione. Per Benjamin il piacere dell’ebbrezza e quello della creazione sono affini allo srotolare un gomitolo di lana. Procediamo, scoprendo non solo la tortuosità della caverna nella quale abbiamo osato inoltrarci, ma al tempo stesso proviamo questa felicità di scoprire solo in virtù di quell’altra felicità ritmica, che consiste nello srotolare un gomitolo

I tuoi gomitoli con i tentacoli hanno abitato gli spazi de La Pelanda, trasformando il Teatro 1 in uno studio di montaggio, quanto quella sala con il suo eco ha informato il tuo lavoro? Il linguaggio video che danza e tu – regista, montatore, coreografo – che accosti materiali, che sono a loro volta atomi e particelle di altro. Stratificazione e compostaggio, un archivio che si impossessa di un corpo (lo schermo) e che grazie a quel corpo balla. Come nella possessione vudù. 

Se Profezie è il tuo grimorio, sembra che Pas de deux e Pas Seul siano delle wunderkammern. 

Ma si rischia, così, di lasciare da parte il racconto. È uscito di recente Promemoria, un testo di Andrea Montorio, che è un manuale per creare un archivio di ricordi. È interessante il paragone che fa tra archivio, che ha la dote di rappresentare attraverso l’ordine l’intera complessità del mondo, e racconto, che ha il pregio di ridurla al punto di poterla comprendere. Il talento di un buon narratore di archivio comincia proprio dalla scelta degli elementi necessari alla composizione di un racconto. Rovesciando uno dei principi che ci hanno guidato nella selezione di un archivio, ora l’obiettivo non sarà più la completezza, ma la coerenza della storia. Su questa frase risuonano i pensieri che hai condiviso con noi sull’inizio della composizione di Pas seul. In quale viaggio ti sei imbattuto?
 

 
* * *
 
 

Care Paola e Ilaria,
 

che bello ricevere la vostra lettera. E che bello ammirare il dispiegarsi ininterrotto di coincidenze nelle nostre vite. Coincidenze che confermano la residenza trascorsa a Roma come evento in totale armonia con il volere dell’universo. La prima riguarda Walter Benjamin. Presente nelle prime righe della vostra missiva, è anche il protagonista di una mia lettura primaverile: Walter, una biografia non ufficiale a cura della curatrice e critica svizzera Mia Zimmermann. In questo breve ma illuminante testo, un capitolo è dedicato al viaggio dello scrittore tedesco in Giappone:

 

E fu così che Walter nel 1925 si trasferì sulle colline di Tama, nella periferia di Tokyo. Lì passò tre anni della sua vita, con l’intenzione di studiare le occulte pratiche di una comunità di procioni. (…) Trasformatosi in orsetto lavatore nel luglio del 1927, Walter divenne a tutti gli effetti parte della comunità tonuki. Era finito il tempo della distanza accademica, dell’ansia da effetto Hawthorne, del senso di colpa dello straniero. All’alba ci si riuniva in cerchio e si passava la mattina a provare e perfezionare una serie di trasformazioni: da procione a pentolone, da pentolone a drago, da drago a ombra, da ombra a brezza marina, da brezza marina a coccinella. (…) Questi saranno gli anni più sereni della vita di Walter Bendix Schönflies Benjamin, un corpo mutaforme in una foresta magica.

 

Pas de Seul prosegue. Stessa cosa ma diversa. Diventa curioso lavorare sulla qualità dell’ambiguità. Qual è il livello più efficiente di assurdo? Qual è il livello più significativo del non senso? Se scrivo in francese che un bambino sta pensando di essere un fuoco, il pubblico penserà a Shining? Quando l’ornamento può diventare modernista? Si può progettare la spontaneità? Con quali occhi vedrò questa danza tra cinque anni? Ieri ho pescato una strategia obliqua di Brian Eno: “Trova una zona sicura e usala come ancora”. La mia zona sicura è un gatto 3d che cammina in una casa di trapezi azzurri e fucsia. Sto pensando di aggiungere una chiamata zoom con Vito Acconci, fare un countdown con 42 cani e trasformare in video un'istruzione di Yoko Ono (fatto!). Per la prima (ma non solo) vorrei che il pubblico ricevesse in regalo dei sassolini da lanciarmi a fine proiezione.

 

The scandal of "Un Chien Andalou" has become one of the legends of the surrealists. At the first screening, Bunuel claimed, he stood behind the screen with his pockets filled with stones, "to throw at the audience in case of disaster." Others do not remember the stones, but Bunuel's memories were sometimes a vivid rewrite of life. When he and his friends first saw Sergei Eisenstein's revolutionary Soviet film "Battleship Potemkin," he claimed, they left the theater and immediately began tearing up the street stones to build barricades. True?

 

Precisa la citazione di Andrea Montorio che mi avete allegatoGérardine Mortal dice che “Il cinema racconta storie, l’arte suggerisce possibilità” ma non mi fiderei perché lei non esiste.

L’arte in realtà controlla che non ci si ripeta e che non si facciano le cose di fretta. 

Vi ringrazio per avermi dato l’opportunità di fare le cose per bene. E di aver creduto in delle idee. Davvero.

Un grande abbraccio da Firenze,

Rob

 

 

parte di

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Gli appunti in forma di diario raccolti qui raccontano il percorso fatto con le artiste e gli artisti del progetto Prender-si cura, un ciclo di residenze artistiche e produttive realizzate a La Pelanda, nel Mattatoio di Roma.
Padiglione 9B, Performer: Prinz Gholam
13 luglio, ore 12-13
SOLO SU INVITO
13 luglio, ore 12-13
13 luglio, ore 12-13