Occhi, corpi che escono dagli occhi e si tuffano nello sguardo di chi guarda, offuscamenti della vista, bagliori o – come scrivono Ilenia Caleo e Silvia Calderoni – baluginii. Glimpses che accecano e, dove lo sguardo non può più, si sta con l’immaginazione di quello che c’è.
Sei corpi in scena si muovono, si trasformano, si guardano e guardano fuori. Anche chi guarda è trasformato. Tony, Giacomo, Silvia, Fede, Ilenia, Gabrio in residenza ad affollare La Pelanda che in quei giorni era satura di voci, corpi, materia e umori.
Temperature e affetti, queste le due parole che scrivo del ritorno in residenza di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo con The Present Is Not Enough, il progetto che portano avanti con altr_ performer (Tony Allotta, Giacomo AG, Fede Morini, Gabriele Lepera) e che ha visto una prima apparizione negli spazi del MACRO durante il festival Buffalo di Roma, poco dopo le alle giornate di lavoro a La Pelanda.
Seguire le prove, sempre seduta nello stesso posto, “il proprio posto”, quello che sempre si deve trovare quando si entra nella ricerca altrui. Sapere quando si può entrare e quando si può intervenire è come un esercizio coreografico e in questo Prender-si cura è stata palestra privilegiata.
Ascoltare le prove da fuori il Teatro 2, mentre si lavora su altro; i suoni del training, lo scricchiolio dei sacchetti di plastica, la musica e, improvvisamente, una voce registrata. Che cos’è? Non c’era prima? Essere fuori dalla porta è comunque esserci – esserci per, mettere a disposizione occhi, orecchie, naso, pancia, viscere, testa.
Non ci si aspetti una ricostruzione organica: il frammento, i buchi di memoria, l’archivio masticato, la visione impedita, l’accecamento, fanno parte tanto della materia del lavoro quanto dell’esperienza di chi guarda. Come in altre performance che toccano un punto molto interno del corpo, c’è qualcosa di indicibile su The Present Is Not Enough. Le parole non arrivano a tutto. La bocca a volte serve a fare bolle e la lingua a leccare un cartone fino a bucarlo. Fare il desiderio e disfarlo un attimo dopo a partire da pratiche come il cruising.
Faccio delle ricerche sul cruising ma tengo solo le parole che hanno usato Silvia Calderoni e Ilenia Caleo: un’utopia dei corpi di cui non abbiamo esperienza.
Togliersi e rimettersi i vestiti che strusciano sulla pelle, Gabriele tira giù i pantaloni e la fibbia della cintura tocca il pavimento di legno del teatro. I corpi nudi a un certo punto non li vedi più: l’anatomia si scompone, così anche l’umano si scioglie e si contamina con toni animali, creature sottilmente fantastiche. È da qui che dobbiamo pensare l’utopia?
Un fare performativo il cui tempo è teatrale; interrogare la rappresentazione. Non c’è risposta possibile se non l’accecarsi, la relazione, l’accettare di non vedere tutto.
Nel trascorrere dei giorni di residenza ho fatto uno spazio enorme dentro di me; assaporare il vuoto che, poi, si riempie, avere un appuntamento fisso con qualcuno (o qualcosa) che hai imparato ad amare.
Ho visto tutto l’archivio fotografico che Silvia e Ilenia hanno raccolto e ci hanno mostrato durante la prima residenza dello scorso anno a La Pelanda: ho incontrato David Wojnarowicz e il suo lavoro, ho visto i piers di New York e l’acqua dell’Hudson anche se non ne ho un’esperienza diretta.
Ho visto tutto anche se in scena c’è altro. Ripensare l’archivio, incarnare, solo per un attimo, e poi diventare qualcos’altro. Ripensare i confini della visione, della mascolinità, del performativo. Ripensare il tempo e manipolarlo. Uscire dalla sala sempre diversa, a volte come con la sensazione di avere la febbre.
Le utopie concrete potrebbero anche essere un sogno a occhi aperti,
ma sono invece la speranza di un collettivo,
di un gruppo emergente,
o perfino di un* visionar* solitar*
che da sol* sogna per tutti.
Josè Esteban Muñoz, Cruising Utopia
Paola Granato