14 luglio 2020
Roma → Roma
Durata: 00:31:53
Con Marina la conversazione si svolge, in presenza, poco tempo dopo la fine della sua residenza, all’aperto, in una condizione quasi opposta ai dialoghi avvenuti con gli altri artisti durante il lockdown. Questo perché Marina è stata l’ultima artista ad essere coinvolta nel progetto ma la prima ad entrare nello spazio di lavoro. Siamo in un bar vicino a La Pelanda.
La pratica da cui nasce questo lavoro ha una storia lunga, ho cominciato a esplorarla quando ancora ero in accademia e i tempi di immersione erano lunghissimi e dettati solo dal desiderio di trovare uno spazio di ascolto del corpo in un periodo in cui ero inondata di informazioni esterne e di modelli ai quali aderire. Mi sono trovata ad approfondire la ricerca sulla questione della scelta nella generazione del movimento, e, visto che non siamo pellicole vergini e niente è già dato, ho cercato uno stato del corpo, in cui aprirmi innanzitutto alla percezione di ciò che già avveniva, e quindi all’ascolto di respiro e peso.
La ricerca l’ho ripresa un anno e mezzo dopo, questa volta col desiderio di creazione, insieme a Viktor Szeri ed Elisabetta Bonfà in qualità di performer, a Gaia Clotilde Chernetich come consulente drammaturgica e a tante altre persone che mi hanno accompagnata nel processo di ricerca e che hanno nutrito il lavoro in diverse forme.
LOOK MA NO HANDS_a way to go (working title), che ha mosso i primi passi durante la residenza a La Pelanda, insieme alla danzatrice Ilaria Quaglia, è il secondo capitolo di questa lunga ricerca.
In sala abbiamo sentito Marina parlare di resa del corpo, qual è il margine tra la scelta e la resa?
È il gioco del lavoro: per poter arrendermi e lasciare devo esserci e, quindi, ci deve essere lucidità nell’accogliere ciò che entra. Lucidità nell’arrendevolezza e arrendevolezza nel dire sì. Tant’è che auspico e uso sempre questo dire sì. È una modulazione di qualcosa che c’è già, che avviene. Chi è in scena porta il suo corpo, la sua immaginazione, i suoi desideri corporei, il suo stato, quello che vede quello che sente. Per me è importante questo atteggiamento del dire sì, senza giudizio di valore. Il corpo si lascia fare, c’è, chiaramente, un’intenzione e anche una domanda di ricerca che limita il campo d’azione, ma mai qualcosa di già dato a priori.
«un’individuazione siffatta non è la combinazione di una forma e di una materia date, sussistenti come termini separati, già costituiti, ma una risoluzione all’interno di un sistema metastabile ricco di potenziali: forma, materia ed energia preesistono nel sistema.»
(G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione)
Il ritorno in sala è stato bellissimo, inizialmente traumatico. Trovi un corpo che non risponde come vorresti, che si porta dietro il fatto di essere stato chiuso in uno spazio piccolo per mesi. La sala del Teatro 1 de La Pelanda è gigante, nel lavoro che facciamo cerchiamo di sollecitare la percezione di tutte le superfici del corpo che da tempo non avevano a che fare con tutto quello spazio.
Il primo giorno è stato un po’ frustrante, la pratica del lavoro si svolge in modo tale per cui se non fai quel passo di accettazione dello stato in cui sei non riesci ad andare avanti. Stare in uno stato di attesa, di silenzio, ci ha permesso di scivolare in questa pratica in maniera gentile.
Aprire lo sguardo e portare l’attenzione alla molteplicità dell’ambiente, ma anche alla molteplicità del soggetto, le superfici e le informazioni del corpo, gli stati, le relazioni di questo con lo spazio. Il lavoro è stato serrato e intenso, senza l’arroganza di calare sulle cose in maniera gerarchica, ma facendole entrare da sotto e aspettare che emergano.
La calma insieme all’accoglienza, la cura e l’attenzione di tutte le persone che animano La Pelanda, ci hanno permesso di immergerci in una residenza davvero di ricerca. E poi tornare al lavoro, nutrite, finalmente, dalla possibilità di riattivare dialoghi e processi condivisi, ci ha restituito molto, anche una certa sensazione di libertà che ci siamo prese e che il contesto ha reso possibile.
«L’individuo non è, a pieno titolo, in relazione né con sé stesso né con altre realtà: esso, piuttosto, è della relazione, e non in relazione, poiché la relazione è operazione intensa, centro attivo.»
(G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione)
Marina ci ha inviato alcuni brani che hanno accompagnato la costruzione del lavoro, questo di Simondon è significativo rispetto alla pratica artistica che Marina sta portando avanti, e, anche, rispetto alle parole che usa ripercorrendo il suo periodo di residenza. La costruzione del lavoro artistico non è un sistema chiuso, ma è, anche essa, parte della relazione. Una relazione che si da non solo in ambito prettamente artistico ma in costante dialogo con i luoghi che accolgono la ricerca.
«La libertà, l’ordine del {decisionale}, è la discontinuità dell’istante; nel suo {esercizio}, essa non è invenzione ex nihilo, essa è modulazione — C’è una potenza fisica del fare o del non fare, del sì e del no — ma essa non è la libertà. Essa è un sine qua non… della libertà. La libertà è sempre {gestione} di un’eredità.»
È una frase di Merleau-Ponty, tratta da Notes de Travail Inédites, che Marina cita a proposito delle fonti teoriche che hanno informato il lavoro.
Questa frase ci fa venire in mente l’atto della resa che abbiamo visto nel lavoro. Non c’è mai nulla di nuovo, ma è nel lasciare le cose emergere che si trovano nuovi sguardi e connessioni, la bellezza di trovare un proprio pensiero espresso altrove, nelle parole di un’altra persona.