Liryc Dela Cruz è un artista delle Filippine che abbiamo conosciuto durante il suo periodo di permanenza a Roma. La sua ricerca artistica si è sviluppata nel cinema e, recentemente, si è aperta al performativo, contaminando i linguaggi tra loro. Il primo lavoro performativo di Liryc Dela Cruz ha come titolo Il mio Filippino. In questo lavoro l’artista decide di coinvolgere un gruppo formato da lavoratori e lavoratrici domestiche, provenienti dalle Filippine, e indagare insieme lo stato dei loro corpi e cosa significa svolgere un lavoro di cura in termini di fatica fisica e negoziare momenti di riposo.
L’artista e il suo gruppo di lavoro, formato da Benjamin Vazquez Barcellano Jr, Sheryl Palbacal Aluan, Jenny Guno Llanto, Dita Bagos, hanno abitato gli spazi di Pelanda durante tre fine settimana di marzo indagando il tema del riposo. Questa idea è venuta all’artista durante una conversazione conoscitiva e preparatoria alla residenza. Ha sentito la necessità di confrontarsi su questo argomento con le e il performer che lo accompagnano, approfondendo, così, una delle parti della performance Il mio Filippino, che indaga l’esaurimento e il riposo del corpo.
L’ultimo giorno di residenza Liryc ha voluto condividere con noi e con un gruppo di colleghi e amici la ricerca portata avanti nei giorni di residenza. Lo spazio del Foyer 2, luogo scelto per lavorare e presentare la ricerca, è abitato da pochi elementi: una zanzariera rosa montata come una tenda, della terra, una proiezione al muro e l’oscurità che ci circonda. La sala è vissuta come un ambiente da attraversare e l’indicazione per il pubblico è quella di trovare un posto confortevole dove sedersi. Il materiale che i performer condividono con noi è la pratica su cui hanno lavorato nelle giornate di residenza. Agendo con libertà e con poche indicazioni da parte di Liryc i performer interagiscono con proiezioni e registrazioni della natura, si crea, così, un ambiente in cui immergersi, dove lo stare insieme e condividere l’atto del riposo prende il sopravvento sul guardare, in un’azione collettiva e introspettiva al tempo stesso.
Liryc Dela Cruz ha condiviso con noi alcuni pensieri sulla residenza e sulla condivisione del lavoro:
Sono felice di aver fatto questa residenza perché sono riuscito a realizzare ciò che volevo: fare una ricerca sul riposo. Credo che sia un tema importante da studiare. Parlando con alcune persone che hanno partecipato a questa prima condivisione del lavoro e, pur essendo un processo ancora in fieri, ho avuto la sensazione che abbiano colto qualcosa di profondo che riguarda la materia indagata.
La domanda che mi sto ponendo adesso, riguarda il carattere immersivo del lavoro, se, tutti e insieme, siamo riusciti a toccare qualcosa di questo aspetto. Mi chiedo se il pubblico dentro la sala abbia trovato il comfort che abbiamo tentato di cercare e sia riuscito a seguire l’indicazione di scegliere uno spazio comodo per immergersi in ciò in cui era immerso.
Questo tipo di questioni accompagnano il mio lavoro da sempre. Vengo dal cinema e tutti i miei film richiedono un impegno da parte delle spettatrici e degli spettatori: quello di decidere se stare o non stare con i materiali che porto sullo schermo. Ho voglia di sperimentare di più l’immersività del lavoro; con i performer abbiamo, infatti, lavorato molto sul buio in cui sono immersi e in cui immergiamo il pubblico.
Il lavoro di Liryc Dela Cruz ha al suo interno una parte di testo che il pubblico può vedere proiettato in italiano e ascoltare in filippino, un cut up che ha realizzato a partire da una pratica sperimentata durante la residenza con i performer. Sotto richiesta di Liryc i performer hanno scritto una lettera ai loro corpi, a partire da queste, Liryc ha composto un testo dal respiro collettivo. È stata una pratica ad alto livello emotivo e, in parte, dolorosa. Alla nostra domanda sul testo Liryc risponde così:
Ci sono molte cose all’interno del testo, ma nell'attraversare quel materiale è emerso un conflitto personale, per questo ne ho fatto una versione collettiva in cui ho tenuto di ciascuna lettera i concetti che hanno affrontato tutti e che ritenevo avessero una valenza importante. Volevo che il testo condiviso con il pubblico fosse il più impersonale possibile per evitare di renderlo troppo drammatico e di oggettificare i performer. All’inizio pensavo di registrare le voci di tutti ma alla fine abbiamo scelto di lavorare con un’unica voce. Non è facile lavorare con quei corpi e quella materia, ogni laboratorio che facciamo scatena un’importante carica emotiva, quella delle prime volte e spesso emerge il pianto.
Un altro argomento che abbiamo affrontato insieme è quello della costruzione dello spazio, cruciale per ogni produzione artistica, in particolar modo per i lavori che, come questo, escono dalla convenzione della frontalità teatrale. Il pubblico che è entrato in sala, pur avendo libertà di scegliere il proprio posto, si è concentrato su una zona dello spazio, una cosa che preferibilmente non sarebbe dovuta accadere.
Esistono dei materassi che sono tipici delle Filippine. Abbiamo provato a cercarli qui per usarli nello spazio, ma non siamo riusciti a trovarli. Lavorando sul riposo abbiamo sperimentato alcune pratiche che prevedevano anche il sonno e avevamo, quindi, bisogno di qualcosa di confortevole che ci proteggesse dal pavimento.
Abbiamo lavorato anche con la terra, un elemento materico e fortemente simbolico. Nei nostri discorsi c’è sempre un riferimento al territorio e alla rivendicazione di alcuni territori. Nelle pratiche indigene e precoloniali filippine la cura è sempre connessa a come ci si relaziona con la natura e con la terra. Usare questo elemento è ritrovare una connessione tra il corpo e lo spazio.
Quando i coloni spagnoli sono arrivati nelle Filippine definivano la popolazione pigra, parlavano di “indolenza filippina”, perché i filippini dormivano sul terreno e sotto agli alberi. Per me è importante tornare al quel momento di riposo sotto agli alberi, nei campi di riso, nella foresta.
L’incontro con Liryc Dela Cruz e con la sua ricerca sul riposo ha portato all’interno dei nostri discorsi i temi della decolonizzazione e dell’identità. Ci siamo interrogate a lungo su come rapportarci al riposo condiviso messo in campo da Liryc e da coloro che hanno attraversato con lui il processo di lavoro. Alle nostre riflessioni ha risposto così:
Posso rispondere tornando al concetto di ospitalità che i filippini stessi hanno messo in campo all’arrivo dei colonizzatori che li hanno uccisi. Nei nostri laboratori parliamo molto di ospitalità e della dimensione collettiva del riposo, quello che facciamo nel lavoro è un invito a riposare e respirare insieme. Ho affrontato con i performer la questione della presenza del pubblico e ciò che suscitava in loro e si sono dichiarati non disturbati da occhi esterni.
Mi piacerebbe allargare il lavoro a più performer provenienti da parti diverse delle Filippine, in particolar modo mi piacerebbe coinvolgere persone di seconda generazione che sono in lotta con la loro identità, con cosa è possibile essere e con i limiti dei loro corpi. Ieri abbiamo parlato della questione della lingua, che penso sia importante indagare. La maggior parte delle persone di seconda generazione, come per esempio i figli di alcuni performer con cui ho lavorato, non parlano filippino. Nessuno glielo insegna e i genitori non hanno tempo di farlo, questo rappresenta sia un rimorso che una difficoltà di comunicazione.