29 aprile 2020
Roma → Firenze
Durata: 00:51:14
Così come con Giuseppe Vincent Giampino anche con Jacopo Jenna iniziamo a parlare dei luoghi in cui ci troviamo, è inevitabile raccontare del nostro domestico che invade lo schermo. Chiediamo a Jacopo di raccontarci di un workshop on line che terrà con Marco D’Agostin per il Teatro Stabile del Veneto a metà maggio.
Il workshop si intitola Lo spettacolo più bello del mondo, il risultato di questo workshop sarà un montaggio video. I partecipanti hanno dai 14 anni in su e il gruppo lavorerà su delle partiture che riguardano sia l’azione coreografica, che la realizzazione di altri materiali.
È stato interessante lavorare con Marco e stimolante il dialogo che si è instaurato tra noi, non avevamo mai collaborato.
Questo lavoro mi mette in condizione di riflettere sulla trasmissione a distanza in relazione alla coreografia e alla formazione. Il lavoro a distanza si collega con il lavoro che porto avanti con i bambini ma è anche vicino al lavoro che svilupperò durante la residenza.
Una delle questioni centrali è come ricreare il momento dell’inizio, come riportare il piano relazionale, importante in un workshop, adesso che non c’è presenza fisica. Ci stiamo chiedendo se sia possibile ricreare lo stato di conoscenza che si attiva attraverso l’esercizio fisico.
Ci sono esperimenti in tal senso; penso, ad esempio, a quando sono stato in residenza al Seoul Art Institute, dove da tempo si usano piattaforme per la formazione a distanza nelle arti performative e ai progetti di cultural hub di Andrea Paciotto. O ancora, alle pratiche di Jérôme Bel (approfondimento 1; approfondimento 2; approfondimento 3). Esplorare il lavoro a distanza, con dei professionisti, può sicuramente essere interessante. È chiaro che ciò che mi ha fatto avvicinare all’arte dal vivo, ciò che si crea all’interno di uno spazio, nella distanza non ci può essere.
In residenza Jacopo lavorerà su uno spettacolo dal titolo Alcune coreografie, un dialogo tra la danza e la coreografia, il video e l’archivio. A La Pelanda concluderà il lavoro che debutterà in estate a Centrale Fies.
In passato ho fatto dei lavori da videoartista, che si ascrivono a quello che è conosciuto come cinedanza, uno di questi è Camera Coreografica, del 2012. Mi affascina tutto ciò che è sperimentazione nel cinema: i lavori di Maya Deren, di Charles Atlas e Merce Cunningham.
Ho continuato a lavorare alla parte video di Alcune coreografie. In questo momento molti archivi sono stati aperti e ho potuto attingere ad altri materiali.
Il lavoro prende le mosse da Désire Mimétique, un laboratorio per bambini che consiste in un approccio al movimento e alla danza attraverso il video e la visione di diversi linguaggi del corpo, che non vengono spiegati ma esperiti con la copia in diretta. La ripetizione è fatta dal corpo e stimolata da un input che viene dallo schermo.
Come si incorporano i movimenti? Come si trasformano nella visione?
Come creare una coreografia assemblando altre coreografie insieme? Sono alcune delle questioni che fanno parte di Alcune coreografie. La coreografia è creata a tavolino assemblando del found footage, materiale rubato da tante coreografie diverse che sto continuando a mettere insieme. Il tutto va poi verificato in scena con Ramona Caia, la danzatrice dello spettacolo. È con lei che si crea il lavoro dal vivo, ciò che poi l’osservatore vede.
L’assemblaggio video ha valenza sia per chi conosce i materiali, sia per chi non li conosce, non si tratta di un compendio di storia della danza. Il collegamento nel montaggio è cinetico, non solo di senso.
Il montaggio video si compone di due parti: la prima è un montaggio di materiali d’archivio, la seconda è affidata a Roberto Fassone, artista video e performer. Nel montaggio di Roberto ci sono il paesaggio e la natura, non c’è l’uomo. Ha usato immagini della natura che provengono da archivi e stock on line e vuole indagare l’immaterialità della coreografia attraverso il mondo, portando lo spettatore altrove.
Non si tratta di un lavoro a quattro mani, ma dell’inserimento di un lavoro all’interno di un altro lavoro. Possiamo dire che siamo fan l’uno dell’altro. Non è la prima volta che realizzo questo tipo di collaborazioni, penso ad esempio al lavoro realizzato con l’artista Jacopo Miliani.
20 maggio 2020
Roma → Firenze
Durata: 01:26:47
Iniziamo la conversazione con Jacopo facendoci raccontare l’esito del workshop Lo spettacolo più bello del mondo.
Lo spettacolo più bello del mondo è andato bene. È stato toccante, ha funzionato come un workshop in presenza.
Io e Marco D’Agostin, non potendo lavorare insieme, abbiamo fatto due versioni del video, elaborando gli stessi materiali da due punti di vista diversi. È stato un bel modo di conoscersi.
Tutti i giorni davamo ai partecipanti dei compiti: un video di warm up e diverse partiture da eseguire. Il movimento era la base di tutte questi esercizi, tranne l’ultimo che consisteva nello scrivere una lettera.
Nel bando di partecipazione avevamo chiesto loro di raccontarci l’inizio dello spettacolo più bello del mondo, che poi abbiamo usato nei video.
Per quanto riguarda il video che ho realizzato, avevo deciso di voler trovare una strada che restituisse delle cose del laboratorio ma che avesse anche una valenza in sé, che esplorasse il rapporto con il video stesso, con l’archivio e con il cinema.
La dimensione domestica è stata una parte importante, così come il tentativo di decontestualizzarla.
Ci raggiunge, per la seconda parte della conversazione, Roberto Fassone. Lasciamo questo dialogo integrale.
Roberto Fassone: Sono molto felice di questo lavoro che mi ha aperto un sacco di possibilità. Mi sono reso conto due anni fa con Nobodys Indiscipline che tra il mio mondo – quello dell’arte visiva – e il mondo dell’arte performativa ci sono molti punti di coincidenza e molte cose che si danno per scontate. Quando sono entrato in contatto con il mondo della danza contemporanea ho capito che c’era molta vicinanza con la mia pratica, mi sono detto non c’è solo Tino Seghal o Francis Alÿs. Ho avuto modo di vedere il lavoro di Jacopo, in particolare il suo lavoro su Micheal Jackson. Un mio problema col mondo della danza, adesso che vado a vedere più spettacoli, è che sento ancora, in alcuni casi, molta lontananza da quel linguaggio e a volte faccio fatica ad apprezzare il lavoro. Quello che mi piace di Jacopo è che è in grado di parlarmi di cose in modo accessibile ma andando in profondità, ed è qualcosa che cerco sia nell’arte che nella danza.
Questo aspetto l’ho trovato particolarmente evidente nel lavoro su Micheal Jackson, I Wish I Could Dance like M.J. Io, inoltre, avevo fatto un lavoro su Prince.
Poi un giorno mi ha chiamato per propormi di lavorare a questo progetto e mi sono sentito invitato in un mondo nuovo. Adesso mi sento anche io parte di questo mondo della coreografia, mi piace dire “sono un coreografo”. Mi ha dato un hard disk con video di tutta la storia della danza, anche io ho fatto uno studio archivistico dello stesso tipo sull’arte visiva. Abbiamo dei modi di lavorare molto simili, attenti alla struttura, un’attenzione a come sono fatte le cose e a come funzionano anche da un punto di vista oggettivo. Ho iniziato a guardare i video che mi aveva dato e c’è stato un momento per me illuminante, in cui Lucinda Childs parla di una danza astratta. In questo momento sto facendo molte riflessioni sull’esperienza spirituale e psichedelica e legate a realtà parallele, mi interessano gli anni Sessanta, Timothy Leary, Alan Watts, tutti scrittori che hanno sperimentato l’LSD e i funghi. Leggendoli ho trovato molte cose interessanti rispetto all’immaginazione e alla creatività, tutto è legato ai sogni lucidi, al surrealismo e agli anni ’30 del Novecento. Ho capito che la psichedelia non è altro che il cambio, lo spostamento: di luogo, di dimensione, di funzione.
Ho visto un albero e ho pensato che si può tranquillamente dire che quell’albero sta ballando. Ho cominciato a pensare alla storia di una coreografa giapponese che si inventa una serie di coreografie astratte stando nella sua stanza e utilizzando la natura. Ho sempre bisogno di staccarmi da me, pensare che non sia una mia opera ma che sia la coreografia di questa coreografa, come se il lavoro arrivasse più da lei che da me. Ho iniziato a pensare di far ballare tutti degli elementi naturali sulla musica che amo. Quest’anno ho insegnato cinema e ho rivisto molti film, mi sono reso conto del dialogo che c’è tra musica e immagine. Questo ha influito nel lavoro, immaginavo, infatti, ciascuna scena come se fosse l’incipit o un momento importante di un film. Sto approcciando la creazione di nuovi video con questo stesso sentimento.
Jacopo Jenna: all’inizio avevo mostrato a Roberto il dispositivo: unire tanti video per formare una coreografia. Ma volevo lasciarlo libero, volevo farmi sorprendere per lasciarmi spostare. Dopo aver visto il suo video anche il mio si è modificato.
Ilaria Mancia: e la presenza del corpo della danzatrice? È una questione che Roberto si è posto?
J.J.: a lui non era stato chiesto. Avevamo pensato che il suo intervento potesse essere un film indipendente. Ero io che dovevo trovare la relazione con il corpo. Infatti, la presenza fisica nel suo lavoro crea, in questo momento, dei problemi.
R.F.: quando ho lavorato al video non ho immaginato Ramona, ma ho immaginato quello che avrei potuto fare io. È un momento complesso del lavoro. Credo che la cosa importante sia che le due cose non si depotenzino. L’ipotesi di lasciare solo il video, escludendo la presenza in scena della danzatrice, sarebbe una scelta radicale.
I.M.: per me è un nodo interessante quello dell’incontro, o non incontro, dell’arte visiva con l’arte performativa. Penso che la scelta estrema di mostrare solo il video di Roberto possa far incontrare i due mondi e possa aprire una terza possibilità. La attraverserei per sperimentare questo confronto di mondi.
R.F.: l’idea di incontrare un pubblico che va a vedere un lavoro di danza e si trova di fronte a un video mi interessa. Il fatto che un video, o un disegno, possano essere una coreografia è ciò che mi ha fatto avvicinare a Jacopo. Penso che nelle arti visive ci sia una libertà maggiore rispetto al mondo della danza. La cosa che ho imparato dalle arti visive, quando ad esempio vedo il lavoro di Paola Pivi, è che posso fare ciò che voglio, ho tutto il mondo a disposizione per ricreare il significato di ciò che voglio. Volevo che il mio video fosse una danza e ho iniziato a pensare a Michel Gondry.
Il video di Jacopo sembra un video di arti visive. Abbiamo avviato un discorso sulla possibilità di esporre questi due video su due canali diversi, essendo questo un progetto che può espandersi in varie dimensioni.
I.M.: alle volte noto delle grosse ingenuità che provengono dal mondo delle arti visive rispetto all’ambito performativo contemporaneo. Mi sembra che questa estrema libertà rischi di coincidere con l’ingenuità.
R.F: le cose vengono valutate in maniera diversa a seconda dei contesti in cui vengono presentate. Il pubblico non sembra esistere nelle arti visive, non si pensa alla psicologia del pubblico.
La prima volta che ho presentato in teatro un lavoro che faccio in galleria ho sentito molta pressione, è una macchina più complessa, che usa un linguaggio più codificato.
Paola Granato: dopo aver visto il video mi piacerebbe chiederti qualcosa in più sul suono.
J.J.: sul suono sto lavorando con un compositore ma, nel mio montaggio, entrano alcuni suoni originali. Quando arriva il video di Roberto appare un mondo musicale e il contesto temporale che lo caratterizza.
19 novembre 2020
Nel rileggere la nostra ultima conversazione chiediamo a Roberto via mail qualche suggestione sul tema della psichedelia. Ci risponde così:
Oggetto: Conversazioni
19 nov 2020, 09:30
grazie per la domanda! Rispondo volentieri.
Per quanto riguarda i testi, sicuramente High Priests di Timothy Leary, che è una collezione di 16 trip in compagnia di figure di rilievo degli anni 60. Il libro è a tratti ermetico, a tratti piacevolissimo, e si sviluppa su due piani. Sempre di Timothy Leary, che è una figura cardine nella cultura psichedelica (ha compiuto studi su come LSD e funghi avessero proprietà terapeutiche per la depressione), The Psychedelic Experience: A Manual Based on The Tibetan Book of the Dead, una mini guida su come affrontare i trip, basato sul libro tibetano dei morti. Poi ci sarebbe True Hallucinations di Terence McKenna, la storia di come lui e suo fratello sono andati in Amazzonia alla ricerca di sostanza psicotrope e la loro vita è cambiata. Alan Watts, The Book On the Taboo Against Knowing Who You Are, che è più una riflessione zen/filosofica. Dagli anni 70 in poi le porte sulla ricerca si sono chiuse, per riaprirsi recentemente, grazie a nuovi studi accademici e a un bel libro di Michael Pollan, How to Change your Mind, che racconta dei possibili effetti benefici di LSD e psilocibina. (c’è anche una recente traduzione in italiano, Come cambiare la tua mente).
Se parliamo di video, su youtube ci sono due bei podcast di Joe Rogan proprio con Michael Pollan e uno con Dennis Mckenna (fratello di Terence).
Esiste poi un incredibile canale youtube chiamato We plants are happy plants, che raccoglie tutti i monologhi e le lezioni di McKenna, che è un oratore fuori dalla norma.
Dal punto di vista visivo/musicale suggerisco Thee Oh Sees, Kikagaku Moyo, King Gizzard and the Lizard Wizard, Tame Impala.
Baci e a presto!
Rob