27 aprile 2020
Roma → Roma
Durata: 00:55:21
La conversazione con Giuseppe è la prima che facciamo. La situazione guida i nostri pensieri, che all’inizio si concentrano su cose banali: i luoghi da cui ci parliamo, le abitudini a cui questo stato di eccezione ci ha costretto. Parliamo dell’attualità e delle specificità del settore.
Mi chiedo quali saranno i modi in cui rientreremo in contatto, credo ci sia la necessità di riformare strutturalmente alcune modalità di relazione. Questa necessità non è una novità e in questo momento sta prendendo molte forme (tavoli di lavoro istituzionali, sindacati, tutela delle figure professionali autonome).
Manca un allineamento a livello politico di gestione dei rapporti, ad esempio tra curatori e curatrici e artisti e artiste. In questo momento si potrebbero fare dei cambiamenti strutturali per far sì che, una volta usciti dal lockdown, non sia tutto come prima. I tavoli di lavoro a cui ho preso parte sono troppo contestuali alle necessità economiche del periodo, bisognerebbe pensare al dopo.
Che cosa vuol dire lavorare con il digitale? Perché può essere pericoloso?
Quali contenuti per quali piattaforme? Sono le domande che risuonano. A questo proposito, e in relazione alla riconversione in digitale di alcuni festival, Giuseppe ci consiglia di guardare un’intervista a Stefano Tomassini.
All’interno di Prender-si cura Giuseppe lavorerà a due progetti GrandPrix — Virtual² e FF.
Mi sono chiesto quanto voglio essere disposto a far si che la condizione attuale mi informi e informi in maniera diversa il modo in cui stavo portando avanti quel lavoro.
La domanda è: quanto sono permeabile a quello che accade?
Virtual² è un lavoro che nasce da una piattaforma che si chiama Grand Prix e che prevede la trasmissione di una pratica e una cornice di lavoro a un altro o altra performer. Il progetto tende, infatti, a creare una comunità produttiva e possibilità di lavoro per altri e altre. Quando ho iniziato a pensare a questa piattaforma, che si basa sulla relazione, mi sono reso conto della completa distanza tra i soggetti artistici che in qualche modo è stata creata dal sistema per rendere tutto competitivo, siamo come monadi che si fanno la guerra. Ho pensato, allora, di ricucire e accorciare le distanze tra due generazioni andando anche al di là del rapporto performer/maker. Così ho coinvolto Cristina Kristal Rizzo. Abbiamo cercato di creare un punto d’incontro tra noi che si è rivelato un rapporto che trascende l’oggetto a cui stiamo lavorando.
Tornando alla domanda di prima, il tentativo è quello di capire come modificare il lavoro ma non solo per farlo rispondere alla contemporaneità. Mi interessa capire se si è modificato qualcosa nel processo o se questi eventi hanno, in qualche modo, modificato il rapporto tra me e Cristina. È una domanda aperta ma il dato deve emergere dalla necessità.
Il dialogo scaturito dal questo progetto non è solo lavorativo ma ha visto la nascita di un rapporto altro. Una delle basi di Grand Prix è che non ci sia un rapporto di amicizia già instaurato tra i performer. Ci deve essere uno spazio vuoto. Mi sembra questa la parte interessante del progetto. Quando abbiamo iniziato a lavorare con Cristina lo abbiamo fatto attraverso dei task che ci siamo scambiati che hanno fatto emergere materiali diversi. Abbiamo condiviso, oltre al lavoro, spazi della quotidianità. Sono due piani separati ma che si nutrono a vicenda.
12 maggio 2020
Roma → Roma
Durata: 01:10:34
Scrivo a Ilaria che in questo periodo anche i tempi verbali sono alterati, non sappiamo come parlare. Nei giorni precedenti a questa conversazione Giuseppe ci invia il materiale relativo all’altro progetto che svilupperà durante la residenza a La Pelanda, FF. Iniziamo da qui.
È un progetto a cui tengo molto. Ho presentato solo uno studio a Teatri di Vetro a Roma. Non ho praticamente fatto prove.
Nella presentazione Giuseppe scrive: la performance si focalizza sull’essere-coreografico all’interno del format del “solo”: la frammentazione del sé performativo da quello autoriale. Ilaria gli chiede perché intende questo lavoro come un solo.
Vorrei tenere sempre più presente la non frontalità dei performer e mantenere la frontalità del pubblico. Mi interessa usare le zone non visibili dello spazio scenico e come queste intervengono nel frame della scena.
Come immagini di tornare a lavorare all’interno di uno spazio? E come potrà essere attraversato quello spazio e questa ricerca aperta? Poniamo queste domande a molti degli artisti che fanno parte del progetto, ci interessa immaginare un ritorno che sia aderente ai loro desideri.
Ci sono vari tipi di attitudine: utilizzare lo spazio e piegarlo al progetto, oppure aprire il progetto al tipo di spazio. È questa seconda modalità che mi piace sviluppare, per questo penso che alcuni materiali saranno riadattati allo spazio che prende forma. Nella mia testa lo spazio informa sempre il progetto ed è la parte più divertente. Poter giocare con il fuori e dentro e cercare un cambiamento delle gerarchie della visione.
All’interno di Prender-si cura non sono solo artiste e artisti in residenza ma anche un festival: Short Theatre è un festival in residenza. Tra i discorsi condivisi, Ilaria racconta come una delle cose che più l’ha colpita degli spazi della Pelanda è che sono circondati da vetri e hanno la possibilità di poter essere attraversati anche da sguardi di passaggio.
Chiediamo a Giuseppe come e se si immagina uno sguardo sul suo processo di lavoro
Nella mia esperienza avere vari sguardi che attraversano il lavoro è importante. Idealmente più persone ci sono più c’è possibilità di riflettere sul lavoro. Tutto diventa materiale possibile ed è anche un modo per prendere distanza da quello che si fa.
Mi piace incontrare persone con uno sguardo drammaturgico, ma senza l’intento drammaturgico, in grado di informare in maniera diversa quello che stai facendo, aprendo o chiudendo la lettura.
Invito anche diversi colleghi a guardare le prove. Superata la metà del lavoro il nucleo delle persone coinvolte nello sguardo deve, però, diventare più ristretto. Nella prima metà del processo, nella sperimentazione, lo trovo sempre utile. È vitale specialmente nei processi di live arts tenere viva la prospettiva altra.
Il formato lo decido in base al tipo di materiale che sto lavorando, non lo stabilisco prima.
Capita che ci siano dei materiali che possono avere una loro vita staccata e possono, a volte, diventare delle azioni che potremmo definire durational.
Nel testo su FF parlo del tempo in termini compositivi. Come scardinare la gerarchia drammaturgica classica: inizio – acme – discesa e fine? come considerare la temporalità in termini di materiali che interagiscono fra loro, di relazione che si istaura? Ogni azione ha bisogno del suo tempo specifico per mettere in campo delle possibilità.
Ci sono quadri e immagini che aprono a prospettive non solo spaziali ma anche temporali, come La Tempesta di Giorgione, analizzata durante una lezione del Master PACS, racconta Ilaria, dopo aver visto un’immagine delle statue del Partenone nei materiali di Giuseppe.
L’immagine delle statue del Partenone è fonte d’ispirazione: come guardo quelle statue definisce, o cerca di definire, una serie di desideri di traiettorie lavoro. Quell’immagine è molto ritmica. Ho una sorta di fissazione per le statue rotte. Tempo fa avevo fatto calchi di mani e braccia, che poi rompevo. Vorrei continuare a fare calchi, non solo del mio corpo ma anche di altri corpi.
Con Ilaria siamo d’accordo, ci sono delle questioni che tornano e collegano i due lavori: la questione della temporalità e quella della visione.
Il vedere e non vedere si estende, dice Ilaria, anche alla relazione in scena con Cristina Kristal Rizzo, si vede che c’è altro e che la ricerca è di altro tipo.
Con Cristina facciamo vedere delle cose che sono solo dettagli di un rapporto. Vorrei ampliare quella percezione e per questo ho messo in campo il video, che devo capire ancora bene come utilizzare.
A Modena la telecamera era fissa e ci dava la possibilità di lavorare nella relazione tra il frame dello schermo e quello della scena, quando entrava in campo lo schermo scendeva il sipario e diventavamo visibili solo attraverso lo schermo.
Mi diverte rendere il teatro un luogo tecnico visibile non un luogo che porta da un’altra parte, ciò che accade è in quel momento e non vuole mettere in campo un altro immaginario. Il tentativo è quello di ancorarsi a una temporalità continua.
Ci sono due riferimenti messi in campo da Giuseppe che ci colpiscono: l’ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response) e il lavoro di Elsa Schiaparelli.
L’ ASMR l’ho utilizzato anche in un altro lavoro che si chiama Panda Express. Per me si tratta di aprire le potenzialità dei corpi, degli oggetti o degli enti in una modalità di relazione non ordinaria. Prendi un oggetto banale come la cassetta di un gioco del game boy, un libro o uno smalto. L’operatore di ASMR cerca di far emergere una certa qualità sensuale dall’oggetto o che viene percepita sensuale, erotica, sensibile.
Cercare di ampliare il più possibile in termini compositivi questo processo parte dal considerare tutti gli enti uguali, hanno tutti un certo grado di possibilità di relazione nelle loro differenze.
Elsa Schiaparelli nel campo della moda ha usato per prima quello che ha definito rosa shocking. È da molto tempo che stavo cercando un “modo di collaborare” con lei. Ricollego le sue creazioni all’utilizzo dell’anatomia umana.
Schiaparelli ha costruito degli accessori a forma di bocca, naso orecchio. In lei c’è l’approccio Dada che mi piace molto. Dato che volevo fare una sequenza di movimenti con i calchi delle braccia e vorrei costruire un orecchio modulare, sono arrivato a lei. Mi appassiona questa estetica, non a caso ho al collo un ciondolo con un ex voto di un orecchio.