Gianmaria Borzillo è arrivato a La Pelanda portando con sé la pienezza dei lavori che stanno per trovare la forma compiuta. Sono stati giorni intensi, in cui abbiamo assistito a molte prove nella sala del Teatro 2 de La Pelanda testimoniando un’evoluzione del lavoro e la messa in discussione di alcuni elementi.
Con Gianmaria ci siamo incontrate sotto il sole di una domenica mattina a Campo Boario e abbiamo parlato non solo di Under the Influence, il suo primo progetto da regista su cui ha lavorato nei giorni della residenza e che vede in scena Elena Giannotti e Matteo Ramponi, ma anche di cinema e letteratura. Una conversazione che va fuori dai margini, così come va fuori dai margini il suo progetto di spettacolo che supera tutte le categorie pur facendo parte - a pieno titolo - di tutte.
20.3.2021
Ilaria Mancia: Quando hai iniziato a pensare a questo lavoro?
Gianmaria Borzillo: Ho iniziato a pensarci a dicembre dello scorso anno. È un progetto nato come cortometraggio. C’è un riferimento esplicito al film di John Cassavetes A woman under the influence, non vorrei, però, che il pubblico cercasse il film nello spettacolo, non è così presente.
In realtà, tutto parte dal Bolèro di Ravel, anche il soggetto del cortometraggio: la storia della quotidianità di una donna che si ripete ossessivamente. Una storia simile a quella di Jeanne Dielman del film di Chantal Akerman, ma più ottimista. Poi ho trasformato il progetto, il cortometraggio vorrei ancora realizzarlo. Mi ero ispirato alla figura di mia madre quando l’ho scritto e lo avevo pensato silenzioso, solo con la musica del Bolèro in sottofondo.
Ilaria Mancia: Perché proprio il Bolèro?
Gianmaria Borzillo: È un pezzo che ho sempre amato molto. Mi è tornato in mente due anni fa, quando ho visto uno spettacolo. Ogni volta che lo ascolto ho in testa l’immagine di una persona che sbatte più volte contro un muro.
Ilaria Mancia: È una musica che mi inquieta. C’è anche la storia che porta sfortuna.
Gianmaria Borzillo: Quando lo ascolto non penso mai a tutto l’immaginario esotico e sensuale a cui siamo abituati, per me è, per certi versi, esistenzialista. Immagino una quotidianità, una ripetizione, un’ossessione in cui c’è un’apertura. Non ho mai capito il finale del Bolèro, quando la musica sale. Durante le prove abbiamo capito che usarlo nella sua versione originale avrebbe significato fare un lavoro sul Bolèro di Ravel, abbiamo deciso di lavorare sulla struttura del brano ma con l’idea di non farlo partire mai. Abbiamo lavorato sulla traccia musicale e sul crescendo, una preparazione continua che non scoppia mai.
Ho ascoltato il Bolèro tutti i giorni, per molto tempo, specialmente durante il lockdown. Dopo due settimane di prove mi sono reso conto della parte della composizione musicale a cui ero interessato e che poi è rimasta nello spettacolo.
Abbiamo iniziato il lavoro in sala in estate. Durante il lockdown mi sono reso conto che c’erano delle parti del lavoro che si sposavano perfettamente con il tipo di vita che si faceva in quel periodo. Mi sono anche detto, però, che non volevo fare un lavoro sul lockdown. In quel periodo ho letto molto Amelia Rosselli, lei è una figura cardine. Elena (Giannotti) è un po’ lei. La cosa bella della poesia di Rosselli è quella frattura che sembra esserci tra l’interiorità e la scrittura. Nelle poesie di Rosselli è chiaro che la sua interiorità ne esce un po’ ammaccata. Un’ambivalenza tra lo scrivere e fissare una cosa e l’interiorità. Quelle tensioni l’hanno portata al suicidio. Una vita che ha perso. Ho letto una raccolta di sue interviste dal titolo È vostra la vita che ho perso. Non ho lavorato sulle poesie, era la sua figura che mi interessava. Altri riferimenti si aggiungono continuamente, è successo anche in questi giorni, sono importanti anche se non modificheranno il lavoro. Una persona che ha visto la prova ha citato, ad esempio, Nudi e crudi di Alan Bennett.
Paola Granato: Ho pensato a Cortesie per gli ospiti di Ian McEwan. Ma non ritrovo nel lavoro la crudeltà di McEwan o l’ironia pungente di Bennett. La risata, quando c’è, allenta la tensione o, più spesso, la riconduce a una dimensione infantile che sento molto presente nel lavoro. Ieri qualcuno parlava di animali, io penso a dei bambini. In ogni caso sono delle figure mutevoli che non si riesce a fissare.
Ilaria Mancia: A me è venuto in mente Lacci di Domenico Starnone. Leggo questa cosa da google books: Che cosa lasciamo, quando lasciamo qualcuno? Una casa, una famiglia, il passato, un'idea di futuro, la nostra peggiore fotografia impressa a fuoco negli occhi di chi abbiamo amato. Passiamo la vita a spaccare vasi e incollare cocci illudendoci di essere nuovi di zecca. E cerchiamo di non guardare troppo indietro, perché il tempo dei bilanci è un tempo vano, ridicolo e struggente.
Gianmaria Borzillo: Sicuramente abbiamo lavorato su alcune dinamiche tra loro però non abbiamo mai ragionato consciamente sulla coppia. Per me sono anche uno lo specchio dell’altra come se fossero una persona sola, in un certo senso. Ognuno è libero di vederci ciò che vuole, ma non volevo fissare troppo la questione coppia, marito/moglie o compagni.
Paola Granato: Durante le prove vi ho portato il frammento in cui Donna Haraway in Chulucene parla del gioco del ripiglino. All’inizio è stata un’associazione letterale, Elena (Giannotti) e Matteo (Ramponi) fanno questo gioco, ma poi mi sono resa conto che quell’idea di connessioni e aperture che Haraway mette in campo quando usa l’immagine del gioco era molto presente nel lavoro.
Ilaria Mancia: Hai avuto una vera intuizione quando hai deciso di lavorare insieme a Elena (Giannotti) e Matteo (Ramponi), portano sulla scena due intensità molto diverse che stanno bene insieme.
Paola Granato: Quando vedo il riso trattenuto di Elena (Giannotti) penso sempre che se scoppiasse in una risata si ribalterebbe il mondo.
Gianmaria Borzillo: Elena (Giannotti) aveva deciso di non fare più nulla come interprete, poi si è convinta. La cosa bella di Matteo (Ramponi), invece, è che lo conosciamo come un performer potente, invece questa volta ha subito capito che lui doveva stare un passo indietro, che non significa non fare. Anche nella drammaturgia è sempre un passo indietro, e riuscire a stare dentro questa cosa non è scontato.
Spesso quando parlavamo del lavoro ci riferivamo alle loro figure come se fossero dei fantasmi che abitano una scena, non vorrei parlare di spiriti. L’arte che mi piace ha sempre a che fare con una sorta di mistero. Qualcosa di ambiguo, in senso buono, anche perché la realtà che viviamo è ambigua di per sé. Le relazioni che viviamo sono complesse e ambigue, non sono catalogabili. Quando vedo qualcosa che non mi so spiegare ne resto sempre affascinato. C’è una regista georgiana che in un’intervista fa un discorso molto bello sul guardare. Che cosa significa guardare? Guardare non è un atto passivo, significa, dunque, fare entrare degli elementi e delle suggestioni che, apparentemente, non sono comprese dentro l’inquadratura.
Ilaria Mancia: Gli oggetti in scena assumono un senso solo nel momento in cui vengono usati, è come dare qualcosa al racconto per poi sottrarlo.
Gianmaria Borzillo: Il problema iniziale è stato quello di capire cosa mettere sulla scena, abbiamo lavorato anche senza oggetti, però per me i punti di partenza erano due: il Bolèro di Ravel e l’idea della costruzione. Per me è il tentativo di ricostruire qualcosa, una costruzione che non porta a niente.
Ilaria Mancia: Rispetto ai segni si potrebbe sperimentare una sottrazione ulteriore e creare degli oggetti fatti a posta.
Gianmaria Borzillo: Gli oggetti che abbiamo usato non sono nostri. Abbiamo lavorato anche con sgabelli rotti, mi interessa la poca funzionalità dell’oggetto.
Questi giorni abbiamo indagato anche l’ambiguità che c’è nel lavoro, che è stata più volte sottolineata, quella sensazione di non sapere mai che cosa può accadere.
La cosa che mi ha colpito, forse è una cosa che accade sempre ma questo è il mio primo lavoro, è che il piano di noi in sala e del lavoro si sono sovrapposti fin da subito. Ci sono stati dei momenti di crisi dove non sapevamo cosa fare e il lavoro parla proprio di quello. Invece di allontanarci da quello stato, la necessità era quella di abitarlo ancora di più. In questo riconosco anche il metodo di lavoro che ho sperimentato con Alessandro Sciarroni. Siamo arrivati lì e abbiamo iniziato a dialogare. Tutta la parte in silenzio l’avevo in testa, volevo che ci fosse il silenzio, proprio perché il Bolèro è così potente che prima ci deve essere qualcosa di totalmente opposto.
È stata un’esplorazione in cui la cosa importante era capire la relazione tra loro due. Indagare un passato senza andare nella psicologia.
Una narrazione interna l’abbiamo costruita ma senza guardare al film. Il lavoro è tutto scritto, non c’è margine d’improvvisazione, anche se siamo partiti da lì.
Abbiamo scritto una sorta di decalogo che è come una guida. Uno dei punti si concentra su un’ambivalenza di tempo, come se passato/presente/futuro combaciassero, abbiamo lavorato proprio per evocare qualcosa che è successo, una rottura, senza rappresentarlo. All’inizio ero preoccupato perché mi sembrava troppo poco e ho cercato di stare attento a non andare troppo nel minimal, perché non volevo finire completamente in una zona performativa, che, comunque, sento presente.
Paola Granato: Per me è molto presente qualcosa che ha a che vedere con l’impossibilità, non vista in maniera chiusa o claustrofobica. Il fatto che anche l’impossibilità possa rappresentare un campo aperto.
Gianmaria Borzillo: L’idea era quella di lavorare sulla visibilità dell’invisibile. Di rendere presenti delle dinamiche che sono invisibili di per sé. In questo il punto di partenza è sempre stato il cinema. Uno di questi esempi è un regista francese che amo molto: Bruno Dumont, un ex professore di filosofia che poi si è dedicato al cinema. È un regista molto rigoroso; uno dei suoi film più famosi è Twentynine palms, la storia di una coppia che va nel deserto, quasi un horror. Dumont riflette molto sul paesaggio. Secondo lui l’invisibile non lo puoi cogliere, non puoi mai prenderlo di faccia, ma devi sempre trovare un punto di vista unico, una sorta di crepa che ti permetta di riprendere un qualcosa e di inserirci degli elementi che non sono visibili, ma che sono per forza di cose evocati. È il punto di vista che scegli che determina le aperture e le chiusure e i segni, senza dare, però, un segno univoco. Nel suo cinema questa cosa mi sembra molto chiara.
Un altro regista che ho riscoperto nell’ultimo periodo è Tsai Ming-liang, regista taiwanese che viene dal teatro sperimentale. Il suo film più conosciuto è Vive l’amour, la storia di tre solitudini che si incontrano in un appartamento vuoto; un altro suo lungometraggio, The hole, è stato recuperato ultimamente perché si svolge durante una pandemia. Tutti i suoi film sono film in silenzio. Tsai Ming-liang lavora molto sul tempo, su cosa accade, nel lasciare che il tempo riveli le cose. C’è un finale famoso dove c’è una ripresa di 8 minuti in cui l’attrice piange, ma la cosa forte è che questo pianto arriva dopo un po’.
Paola: Sarà che in questo periodo sto leggendo Shirley Jackson, il discorso sull’horror – per chiamarlo in un certo modo – mi viene spesso in mente. Lo collego al tuo lavoro sia per quanto riguarda il rapporto visibile e invisibile che spesso evochi, ma anche per la relazione con le temporalità sovrapposte di cui prima parlavi e, non ultimo, per la capacità che hanno gli oggetti, nelle opere di quel genere, di essere.
Gianmaria Borzillo: Ci sono delle frasi di Dumont su cui abbiamo lavorato. Ad esempio: L’ordinario è l’espressione del visibile, la sua forma, la sua espressione e l’invisibile non si filma e ogni tentativo di filmarlo è in partenza stupido e senza senso. Devi camminare, filmare, aspettare, non c’è altro modo di andare oltre. Penso che la mancanza sia interessante, perché di fatto è una porta d’ingresso, una faglia che permette di entrare. Occorre nella rappresentazione trovare una faglia ed è la magia del cinema poter oscillare dal visibile all’invisibile ed entrare nel cuore delle cose nel mistero della nostra natura, nei luoghi più oscuri della nostra contraddizione. Ci si riesce, di fatto, ma per equivalenze, non ci si arriva mai di fronte, ci si arriva sempre per la metafora e le corrispondenze, unicamente attraverso le corrispondenze. In effetti, il visibile corrisponde all’invisibile e per questo siamo toccati dal paesaggio, che prima di tutto è un paesaggio interiore.
Abbiamo riflettuto anche su questo aspetto: un’esteriorità che non è altro che espressione di un’interiorità. È per questo che allora gli oggetti hanno senso solo nel momento in cui si dà una tensione attraverso lo sguardo e attraverso il tocco, proprio perché quell’oggetto di per sé non vale nulla se non corrisponde a un’interiorità.
Ilaria Mancia: Tornando al cinema, non posso non pensare a Michelangelo Antonioni.
Gianmaria Borzillo: Più che Antonioni, per me di quegli anni è stato fondamentale Rossellini, specialmente i suoi lavori più odiati dai critici di sinistra: quelli della sua fase spirituale/cattolica. Trovo che i film con Ingrid Bergman siano bellissimi, in particolare Viaggio in Italia e Stromboli. Antonioni nel lavoro c’è, ma credo di averlo introiettato non da Antonioni stesso ma da chi è venuto dopo e a sua volta lo ha usato, in particolare molto cinema asiatico, tipo Tsai Ming-liang e, anche, Wong Kar Wai. Ora, nel momento in cui Under the Influence è al suo stadio produttivo finale, sto riflettendo molto sui prossimi progetti e trovo anche curioso come, partendo da un lavoro sul e nel silenzio, si stiano aprendo degli orizzonti di ricerca molto legati alla musica e agli spazi che questa porta con sé. Mi piacerebbe continuare a sperimentare forme che possano contenere tutti quegli elementi centrali nella mia formazione e ricerca: unire il cinema, la letteratura, la musica, la danza e il teatro e farli confluire in un personale lavoro sulla presenza del corpo in scena.
Qualche tempo dopo una corrispondenza tra noi e Gianmaria Borzillo
Caro Gianmaria,
c’è un’intervista radiofonica in cui Cristina Campo parla di alcune persone segnate da eccezionalità, persone normalissime, comuni. E racconta di un suo incontro con una di queste, un signore pakistano, lo chiama proprio così. Quando questo signore la va a trovare ed entra nella sua stanza, la scrittrice sente un grande sollievo: quello di poter lasciare cadere tutte le rappresentazioni, e semplicemente essere presenza davanti a presenza. Questo sollievo si manifesta in un silenzio. La caduta di rappresentazioni non ha bisogno di parole. Per rigenerarle, ne fa piazza pulita.
Queste parole sono di Giovanna Zoboli, le abbiamo rintracciate in un articolo dal titolo Qualche tempo fa, pubblicato in una rivista pensata ed edita da una casa editrice dedicata all’infanzia, Topipittori.
Come non pensare al silenzio di Under the Influence?
Ma nelle parole di Zoboli c’è di più, lei quel tipo di esperienza di presenza la riconduce all’infanzia ed è allora che prepotentemente viene in mente quella dimensione infantile che c’è nel tuo lavoro. Le figure di Elena e Matteo sono lì nella loro presenza radicale, nudi, e il racconto che offrono è sempre un passo indietro. Ma la domanda la vorrei spostare su coloro che guardano: quanta rappresentazione c’è negli occhi di chi osserva? Elena e Matteo ci mettono in crisi come osservatori e come esseri umani – come quando si guarda “l’essere” dei bambini – ed è in questo in cui sembra stare la natura indecidibile del lavoro.
Abbiamo ascoltato La sinfonia degli addii di Haydn, di cui ci hai parlato nella nostra conversazione.
Entrambe non conoscevamo il libro e neanche la partitura musicale di Haydn, che è stranamente, così poco triste. La sinfonia è stata composta nella residenza estiva del principe Nikolaus Esterházy, il castello di Esterháza. È facile, allora, pensare alle case e alle loro presenze fantasmatiche, e a come in parte – come ci dicevi – il tuo è un lavoro sui fantasmi.
Shirley Jackson nei suoi romanzi fa delle descrizioni delle case e dei loro umori impressionanti. Se torno col pensiero ai suoi racconti, stipiti, viti, verande, sono un tutt’uno con le creature infinitesimali e le piante con cui si intersecano così come con le presenze che le abitano. In molti suoi romanzi tutto sembra scaturire proprio da lì. Quei luoghi apparentemente statici non ospitano semplicemente le presenze che li abitano ma sembrano dare forma alle storie. La stratificazione del tempo, dove passato, presente e futuro si fondono annullando la loro esistenza, di cui tu raccontavi molto in sala nel tuo lavoro con Elena e Matteo e insieme il perturbante che si manifesta.
Anche il Mattatoio sta diventando un luogo di fantasmi, i passaggi di voi artiste e artisti rimangono nelle sale, confondendo e intrecciando le temporalità ed è un continuo riverberare.
Ci hai parlato di Under the influence come di una ricostruzione. Uno spazio, un rapporto, una temporalità simile a quel tempo puro di cui si fa esperienza - secondo Marc Augé - quando si è nelle rovine. In questa ricostruzione si compone anche un linguaggio, che come abbiamo detto varie volte, è un ulteriore elemento che mette in crisi lo sguardo dello spettatore sfuggendo a categorie indicizzabili. Che cosa è successo quando eri al Mattatoio? Cosa ha prodotto nel lavoro l’attraversamento di questo spazio?
Paola e Ilaria
* * *
Care Paola e Ilaria,
vorrei provare a rispondervi con un punto del nostro personale “decalogo” - ci piace scherzosamente chiamarlo così -, in cui abbiamo riportato alcune delle tracce del lavoro: non è lo sguardo che rivela le cose ma le cose a rivelare lo sguardo.
Può sembrare una sottigliezza, ma credo definisca due direzioni opposte.
Se con lo sguardo disegno uno spazio, come performer sono in una posizione di totale potere e dominio rispetto la scena, determino luoghi e traiettorie, decido dove e come stare; ma se il paesaggio attorno, seppur indefinito, già esiste, questo imprime una forza altra, uno stato di ambiguità. Mi interessa lavorare nel crinale tra l’espresso e quello che non si vede, uno sconosciuto che rimane tale, indicibile e irrappresentabile ma che è sempre presente.
Con Elena e Matteo abbiamo gradualmente lasciato che questo altrove si rivelasse, per poi cercare un momento di splendore e rottura che presto abbiamo ritrovato nello stato infantile di cui parlate. L’infanzia è prima di tutto mistero perché continuamente ricordata, frammentata e ricucita, a cui torniamo sempre; e quel ricordare, che altro non è che un inventare, determina una presenza fantasmatica in cui gli interpreti, come nella nota finale di In the Mood for Love di Wong Kar-Wai, guardano, come attraverso uno specchio, ciò che si può vedere ma non toccare.
«C'è un bambino di tre anni che non ha ancora incominciato a parlare, suscitando le preoccupazioni dei genitori. Una sera, durante la cena, il bambino dice improvvisamente che odia i piselli. Quando il papà gli chiede stupefatto perché non avesse mai parlato prima, il bambino risponde: “Perché finora andava tutto bene”.» Percival Everett - “Glyph” - 1999 (“Glifo”, Nutrimenti, 2007)
Fantasmi. Fin dalle primissime prove di Under the Influence ho cercato una direzione in cui gli interpreti potessero perdere strutture anziché trovarne, una sorta di ricerca in negativo.
Una delle prime domande poste è stata: cosa manca?
Provo a spiegarmi: penso che la mancanza - di suono, parola, oggetti - sia interessante perché di fatto è una porta d’ingresso, una faglia che permette di entrare in uno stato altro.
Sentivo l’esigenza di trovare una crepa in una rappresentazione che ben presto si è trasformata in evocazione. In questo un punto di riferimento importante è stato il cinema di Bruno Dumont, autore che opera sempre sulla dimensione ordinaria come espressione di un invisibile.
Il mondo di tutti i giorni dei suoi film non è altro che la forma, l’espressione dell’invisibile, e Dumont dice che “l’invisibile non si filma, e ogni tentativo di filmarlo è in partenza stupido e senza senso. Devi camminare, filmare. Aspettare. Non c’è un altro modo di andare oltre.”
Abbiamo poi cercato di mettere in situazione queste tracce teoriche, in un presente della scena mai puro, che sempre contratta con tempi altri. Questo ci ha permesso di far esistere in scena echi, passati o futuri, di eventi non raccontati ma comunque sentiti. I luoghi e le cose, come quelli di Shirley Jackson, evocano sempre un tempo e una presenza, e non è un caso che la maggior parte delle storie di fantasmi abbiano come nucleo una casa e degli oggetti. Che questo lavoro sia anche anche una ghost story? Ma chi sono i fantasmi? Le figure in scena o ciò che gli sta attorno?
“Poter oscillare dal visibile all'invisibile ed entrare nel cuore delle cose, nei misteri della nostra natura, nei luoghi più oscuri della contraddizione. Ci si riesce, di fatto, ma per equivalenze: non ci si arriva mai di fronte, impossibile. Ci si arriva sempre per la metafora e per le corrispondenze, unicamente attraverso le corrispondenze. In effetti il visibile corrisponde all'invisibile, ed è per questo che siamo toccati dal paesaggio.” - Bruno Dumont
Infine il Mattatoio. Tappa rigenerante di una ricerca già avviata.
Nei giorni di residenza abbiamo deciso di non spostare la struttura drammaturgica e di non aggiungerne elementi, ma di stare dentro il suo scheletro, cercando di scavare il più possibile nei principi già presenti. Quello che con prepotenza si è manifestato è, per l’ennesima volta, la totale adesione delle questioni del progetto al lavoro in sala.
Under the Influence è un lavoro sul vuoto e l’unico modo di affrontarlo è viverlo per davvero, facendo esperienza del tempo puro che quel vuoto richiede. Allora, i punti di crisi del processo creativo si rivelano punti di crisi di Elena e Matteo e delle loro figure.
La scena e la creazione sono luoghi di smarrimento, e in questo perdersi riusciremo forse a trovare l’urgenza di porsi domande senza risposte.
Grazie per questa possibilità,
Gianmaria.