15 maggio 2020
Roma → Firenze
Durata: 00:54:54
Con Cristina Kristal entriamo subito nel vivo della sua ricerca artistica. Sentirla parlare del tema del toccare, ci fa subito capire come la realtà abbia un impatto sulla creazione artistica.
Il progetto che sto sviluppando è sul toccare, far emergere il gesto del tocco dentro alla danza. I corpi in scena si sarebbero dovuti toccare, non lo potremo fare ma l’idea del progetto sta andando avanti e stiamo cercando di realizzarlo. Ero comunque lontana dalle forme della danza tipo contact, c’è una certa leggerezza nel mio discorso che allontana dalla retorica.
Il tema, a livello di concetto, rimane, devo, però, elaborare e immaginare delle pratiche diverse. È probabile che i corpi dei performer dovranno lavorare come delle singolarità. Il tema è molto stratificato e potrebbe essere interessante, ad esempio, lavorare sulla sottrazione del gesto del toccare.
In questo momento vorrei dividere il lavoro in due fasi, creando una sorta di piattaforma online dove poter far convergere una serie di materiali che sono pensati ad hoc per lo spazio virtuale, ad esempio, dei video fatti dai performer su mie indicazioni, momenti di studio con invitati esterni su argomenti attinenti alla ricerca, oppure testi e immagini che possono essere condivise. Creare un luogo virtuale investendo delle economie di produzione e coinvolgendo un artista visivo per dare una linea estetica a questa piattaforma. Il processo di costruzione del lavoro diventa così parte attiva dell’opera creativa, possibile anche in un luogo virtuale.
Da Elogio del toccare di Luce Irigaray:
«Nel mio lavoro ho sperimentato quanto fare esperienza di amor di sé attraverso il contatto reciproco delle labbra possa aiutarci in quanto donne (ma non solo), a scoprire una nostra viva identità. Più in generale, unire le due parti di noi stessi facendole toccare, ad esempio le mani o le palpebre, può aiutarci a raccoglierci e permetterci di condividere con l’altro senza che ci sia una perdita di identità reciproca. Questa è una via che non impedisce all’eros di vivere ed essere coltivato e alla nostra condivisione erotica di manifestarsi. (…) Ci restituisce un’esperienza dell’invisibile che differisce dall’oscurità del nostro primo soggiorno nel grembo materno e della nostra relazione con la madre. Ci svela che l’invisibilità possiede, e deve continuare a possedere, un ruolo nella costituzione delle nostre relazioni e identità adulte. Questa invisibilità non può essere posseduta né compresa. E questa è forse la ragione per cui essa è stata esclusa da una cultura che predilige piuttosto un naturalismo e un razionalismo inquisitori, e che ha mantenuto del tatto soprattutto la sua funzione di appropriazione e possesso. Ma ciò non corrisponde al tatto come elemento costitutivo del nocciolo più intimo di noi stessi, tatto che riguarda il dio Eros e la nostra vita erotica.»
Ci sono stati dei momenti in cui ho pensato di non voler andare avanti con la produzione. Poi le cose si sono trasformate. Non lavorando da sola ho cercato di ascoltare le altre persone coinvolte, sia sulla necessità di lavorare sia su cosa si sentivano o meno di fare.
C’è una parte di me che pensa sia necessario fermarsi e ripensare a come e cosa devono diventare i luoghi dell’arte. Questa per me è la questione, riuscire a far sì che questi luoghi vengano usati in modo diverso. Qualcuno lo sta dicendo, con una certa sensibilità sta cercando di far capire che, oltre al fatto che il sistema deve cambiare, deve cambiare anche la modalità di come vengono pensati i luoghi. Mi piace molto la proposta di Gabriele Vacis di avere un teatro sempre aperto, dove non vai solo a vedere gli spettacoli, diventando esattamente quello che dovrebbe essere, come il Teatro Valle ai tempi dell’occupazione. I teatri all’italiana sono anacronistici architettonicamente, non hanno più senso di esistere, sia per gli artisti sia come luoghi di fruizione per il pubblico, si possono, però, immaginare usati come un’agorà, una piazza, dove accadono più cose e in diverse modalità. C’è sicuramente una questione economica e la politica deve intervenire, alleggerendo una serie di sovrastrutture burocratiche.
Sto lavorando a Marsiglia nell’ambito di un progetto di formazione con giovani che provengono dalle banlieu e mi occupo della parte didattica relativa alla danza contemporanea. Sono giovani, dai 17 ai 23 anni, con problemi complessi, corpi e energie incredibili ma con molti blocchi, una mentalità binaria, per cui la via di mezzo è un concetto difficile da far passare. Ho dovuto lavorare sulla riconfigurazione della danza e su cosa trasmettere loro.
Con il lockdown non sono potuta più tornare lì, ma gli organizzatori hanno creato una piattaforma in rete dove gli insegnanti potevano intervenire. Ho proposto loro, ogni settimana, un link video e un momento di conversazione. Durante questo periodo ho potuto riguardare molte cose, grazie all’apertura di diversi archivi.
Varrebbe la pena di fare un’analisi su questa improvvisa apertura degli archivi. Forse, fino a ora, abbiamo pensato che l’evento dal vivo fosse “il fatto” centrale, mi chiedo perché si sia aspettato fino a questo momento per tali aperture, chiaramente c’è una questione di copyright specialmente per quelle grandi istituzioni in cui i coreografi e le coreografe sono morti o ci sono alcuni lavori che ancora vanno in tournée.
17 giugno 2020
Roma → Firenze
Durata: 01:01:37
Riprendiamo il nostro dialogo a partire da un racconto di Cristina sul suo nuovo periodo di lavoro a Marsiglia da cui è appena tornata.
Questa volta, in due settimane, sono riuscita a costruire un percorso, il tempo più lungo mi ha permesso di dare una certa continuità al lavoro. Con i partecipanti, date le biografie e l’alta energia che hanno, ogni giorno è un po’ come iniziare da capo, anche stare semplicemente fermi con qualcuno che li osserva non è facile. Il direttore, con cui sono entrata in confidenza, questa volta mi ha posto di fronte ad alcune questioni che riguardano specialmente due dei partecipanti. Uno di questi è Kenji Paisley-Hortensia, il più incline alla danza, penso sia pronto per un’esperienza professionale e di coinvolgerlo nella mia prossima produzione.
Torniamo alla ricerca che Cristina sta facendo per il nuovo lavoro. Dalle sue parole è molto chiaro il campo di indagine e la ricerca che vuole sviluppare.
Adesso ho bisogno di iniziare, di stare con i corpi, di abitare lo spazio e capire come questi possano attraversarlo. Sento il bisogno di tirare fuori la parola corpo e che i corpi siano presenti anche in senso anatomico, nel senso della carne. Corpi che si mostrano in tutta la loro sensitività. Non so se è una questione di pathos (ovviamente un pathos che non narra) ma di un corpo che si mostra per quello che è. Percepisco che ci deve essere nudità. La solitudine del corpo mi sembra in questo momento una questione molto potente.
La Pelanda sarà il primo luogo dove rientrerò a lavorare, vado a danzare, a volte, con un gruppo di persone all’aperto in situazioni bucoliche. Credo che ci sarà una bellezza in questo ritorno.
Vorrei esplorare il tocco anche a distanza, un tocco che c’è ma non si vede.
20 giugno 2020
Roma → Firenze → Venezia
Durata: 01:39:03
Parlando con Cristina abbiamo deciso di invitare alla nostra ultima conversazione Ilenia Caleo¹ e Stefano Tomassini².
Cristina Kristal Rizzo: il lavoro affronta la tematica del toccare, parola contenuta anche nel titolo. In questo momento sto entrando sempre di più in questa tematica che avevo deciso di affrontare già prima della pandemia. La mia idea era quella di fare emergere il gesto del toccare per quello che è. Negli scritti che avevo prodotto parlavo di un toccare distaccato, un gesto che potesse emergere da corpi danzanti, escludendo qualsiasi tecnica di danza che ha a che vedere con il contatto, proprio per restituirgli tutto il suo potenziale. È un anno che ci sto lavorando, ma è una parola che arriva da tutto ciò che ho fatto da Bolero Effect in poi. Il tocco, infatti, è già presente in Bolero, in un’altra forma, non c’è il gesto ma c’è il pensiero sul gesto. È da tanto che questa questione sta prendendo spazio dentro di me e ho cominciato a sviluppare delle pratiche al riguardo. A Firenze ho un laboratorio, La Discoteca, con cui porto avanti in maniera sperimentale e in una forma di studio delle pratiche corporee, lì ho potuto lavorare su questo accumulando molto materiale. Sono partita dal quasi tocco, dall’idea del noli me tangere, che, adesso, ovviamente, ha tutto un altro portato. Toccare un corpo ha a che vedere con l’emersione di un tempo, che non è più un tempo performativo ma ha un’altra qualità, per certi versi potremmo parlare di un chiudersi dei corpi. Accade come quando sei molto vicino a qualcuno e lo tocchi, se lo fai con l’emozione senza nessun tipo di emotività, accade qualcosa, un’intimità che emerge dal corpo.
Questo punto di partenza ha a che vedere con la fisica quantistica e le teorie di Karen Barad. Il tocco nella fisica quantistica, ma anche in quella classica, non esiste così come noi lo percepiamo. Quando noi tocchiamo qualcosa abbiamo la sensazione di una superficie altra ma questa non è data da due forze opposte che si attraggono. La fisica quantistica apre il discorso mettendo in campo il vuoto (che è già materia) quindi, anche quello che non tocchiamo lo stiamo già toccando. Mette il discorso sul piano di una dimensione queer ma sganciata dalla dimensione del genere. Siamo interconnessi e toccare ha a che vedere con un’abilità che condividiamo con il tutto, il sensibile e il non sensibile. Questa mi sembrava una chiave di entrata bella per quello che stavo cercando, sviluppando e domandando al mio corpo e a quello degli altri.
Spesso il lavoro partiva dalla meditazione, come forma di accettazione di un vuoto, la usavo come introduzione al gesto del toccare, che emergeva dentro la complessità data da corpi che danzano. Questo mi ha portato a mettere in circolo l’idea della levitazione del corpo e della presa del balletto classico.
Mi interessa il gesto del toccare inteso come toccare che non prende, che non possiede, ma tocca e basta. In quel gesto c’è già tutto dal punto di vista emozionale, psicologico, immaginativo e simbolico. In questo senso la presa del balletto aveva iniziato a circolare nei miei immaginari e volevo rielaborarla, partendo dall’accettazione della propria levitazione, dal fatto che un corpo potesse far levitare un altro corpo, tenendolo sospeso. È una qualità molto precisa da registrare e una sensazione forte.
Queste pratiche le ho assorbite e le sto elaborando anche nell’eventualità che questo gesto del toccare non possa accadere. Di fatto, a oggi, non potrebbe. È una questione vitale e che appartiene a tutti e, in questo momento, è come se si mostrasse in tutta la sua potenza. Ho sentito che dovevo essere un po’ parca per evitare di sembrare presuntuosa.
Sto immaginando che questo tocco non sarà visibile ma molto presente nei corpi e in altro modo. Le pratiche dovranno in qualche modo essere ripensate.
Parto dal tocco come noli me tangere, un tocco che non ha presa ma c’è come condizione, come intenzione e come presenza nel mondo, è intorno a noi.
L’intuizione che inizio ad avere è che il corpo debba ritornare in maniera molto più trasparente. Vorrei che questi corpi ci fossero in tutta la loro carnalità. È la carne del corpo che mi interessa, la carne come flesh.
Il lavoro parte da una commissione, fin dall’inizio avevo dei paletti, essendo sostenuto da MITO Festival uno di questi era lavorare su musiche originali e del repertorio classico, anche rivisitate. Questo ha voluto dire mettermi in relazione con un compositore; abbiamo deciso di lavorare su una riscrittura delle diciotto sonate per clavicembalo di Rameau, compositore del ‘700.
Adesso devo capire come usare la musica anche rispetto agli altri processi di lavoro. In questa prima settimana di prove vorrei tenerla nascosta, vorrei che questa danza emergesse e fosse composta, almeno per metà del processo, sul silenzio, vorrei che la musica circondasse la danza ma rimanesse su un altro piano.
Stefano Tomassini: la musica di Rameau richiama un’estetica a cui sono molto legato. È una bellissima idea quella di partire dal silenzio. Volevo riflettere, non tanto sulla musica di Rameau, ma sulla forma musicale della sonata, che sembra descrivere quello che stai cercando ma che non vuoi ti sia dato dalla musica ma dal processo creativo.
Tutto quello che viene convocato in questa occasione mi sembra sia connesso all’emergenza entro la quale il lavoro nasce e alle incomprensioni entro le quali ci troviamo a lavorare. Per ragioni storiche, ma non solo, è evidente che gli interlocutori, tra i quali mi metto anche io, non sono all’altezza. Credo che la maggior parte di questa inconsapevolezza dipenda da una non conoscenza dei processi creativi. Ciò che stai dicendo è che le pratiche e i materiali da te prodotti, alla luce di questa situazione, devono cambiare. L’unica cosa alla quale posso dirti di rimanere connessa è alla forza delle forme. La forma sonata che si è sviluppata per tutto l’800 diventando, poi, la sinfonia, ha prodotto una possibilità inedita di raccontare il presente. Non si tratta, ovviamente, di replicare questo percorso ma è un insegnamento in un periodo complesso come questo, in cui c’è un’assenza di contenuti condivisi. Credo che uno dei piani di lavoro a cui si può rimanere saldi è quello della vita delle forme, che possa essere una modalità di connettere i piani che tu evocavi, quello della carne e quello del toccare.
Ti faccio una domanda: se non si può toccare nulla non ti viene da dire allora tocco tutto?
C. K. R.: sì
S.T.: se non si può fare allora bisogna farlo fino in fondo. Non diventa un gesto proibito ma uno stato dell’esistenza. Se il gesto non si può fare, il toccare diventa tutto il resto. Non so bene cosa voglia dire ma mi incuriosirebbe vedere un’artista rispondere a questo.
C.K.R.: è esattamente quello che sento. Il piano per me si è spostato su un toccare che diventa uno stato dell’esistente e che devo riportare dentro alla vita delle forme, dunque, dentro alla danza. Sto provando a immaginare che andamento potrebbe avere la struttura di questa danza.
I corpi in scena saranno sempre insieme ma anche sempre soli. Come traccio una continuità tra un corpo e un altro, una traccia e un’altra, una sonata e un’altra? Qual è quella forma che mi permetterà di far percepire questa danza come unica, in un senso totale? All’interno di queste domande torna il toccare come stato dell’esistente e torna sempre più forte la questione di questo corpo che danza anche nella staticità, con un’apertura costante verso l’altro.
S.T.: su un piano drammaturgico la domanda che si compone in questo tuo primo racconto è: che forma ha la sonata del silenzio?
I corpi si occupano di cominciare a lavorare sulla forma sonata nel silenzio, questo potrebbe essere un punto di partenza. Utilizzare questa forma musicale per interrogare nel silenzio i corpi.
C.K.R.: mi stai dando una chiave d’accesso molto forte.
Ilenia Caleo: nel cambio prospettico che opera il lavoro di Barad e in relazione alla ridefinizione della materia e della materialità che quel pensiero porta con sé, il toccare non è più solo un gesto inserito in una visione antropocentrica e antropomorfica. Si può considerare, invece, come una forma della percezione di una materia che percepisce sé stessa e che continuamente si produce in un mondo interrelato, dove anche le relazioni di causa-effetto non sono più meccaniche. Attraverso il tocco non si produce influenza di un corpo sull’altro ma il contatto è su un piano ancora diverso, non necessariamente visibile, non parlo in senso mistico, ma di un corpo che affetta l’altro e lo influenza attraverso un sistema di connessioni che non sono meccaniche. Filosoficamente questa è una grande questione che parte da Hume, che mette in discussione il rapporto causa-effetto con l’esempio delle palle da biliardo: come facciamo a essere sicure che la palla A che colpisce la palla B è causa del suo moto? Fino a ora abbiamo decodificato il muoversi di una palla dopo che è stata toccata da un’altra palla come un rapporto di causa-effetto, ma ciò non impedisce di pensare che esistono altri modelli oltre quello meccanicistico. È un’argomentazione filosofica a cui la fisica quantistica dà una forma scientifica: le temporalità sono interconnesse, pensare che i tempi siano tutti appoggiati e simultanei.
Quando ne parliamo è tutto astratto ma sappiamo che nel tuo lavoro il pensiero assume forme concrete. Per come ne parlavi la dimensione del toccare va già oltre la dimensione del gesto e mi sembra che la danza, in qualche modo, sia comunque già un tipo di composizione tattile, anche se in alcuni casi è schiacciata sulla forma di rappresentazione bidimensionale.
Nel lavoro il toccare accade solo tra corpi umani? Com’è stata elaborata questa dimensione del non umano, il vuoto è un pezzo del non umano?
C.K.R.: è qualcosa su cui mi sto interrogando. Ho fatto delle precedenti esperienze in cui subentra un’altra materia: ho provato con delle tavolette di cioccolata che cambiano stato e si sciolgono e con del gel per capelli. Sono stati degli esperimenti che mi hanno dato la possibilità di vedere altre cose. Mi sto chiedendo se il gesto del toccare potrebbe comparire su oggetti o altre materie, però ho ancora dei dubbi. Sento che piano piano mi sto allontanando da questa necessità del gesto in sé, che quando emerge per quello che è – senza la meccanica – diventa potentissimo. Per un attimo avevo immaginato di avere in scena degli oggetti simili ai cuscini che Warhol aveva realizzato per Rain Forest di Cunningham, mi immaginavo dei pesci giganti. Oggetti che rimangono sospesi e entrano in contatto con i corpi grazie al movimento.
S.T.: l’indicazione che ha dato Ilenia potrebbe ricadere, non tanto su materiali altri, ma, sul sistema cinetico, sullo spazio e il vuoto che crea il movimento. Penso questo anche in relazione alle anatomie e alla meccanica della presa e ai suoi significati storici, riuscendo a svuotarli, mantenendoli come forme. Le prese come la sonata non sono la drammaturgia del lavoro, sono, però, delle forme che hanno una vita materiale. Anche se realizzata da due soggetti una presa non è detto che investa l’umano, anzi potrebbe essere interrogata da una prospettiva non umana.
I.C.: è come se fosse una conchiglia. Qualcosa che si è sedimentato e poi è stato abbandonato dal vivente. Ciò che resta è un oggetto altro, è materia perché minerale, costruita sulla forma di un gesto. C’è una stratificazione di materia data dalla dilatazione del tempo e ne resta una forma. Visualizzo l’immagine di una conchiglia ma si potrebbe parlare di altre stratificazioni temporali, lunghe, brevi o addirittura brevissime. Ne parlo in questi termini perché quando ti riferisci alle prese come sedimentazione di forme materiali penso a qualcosa di non umano.
C.K.R.: in un certo senso ero in questa traccia, l’idea, infatti, era quella di ricollocare le prese in un altro sistema di pensiero. Questo vuol dire sviluppare delle pratiche e, fin dalle prime verifiche fatte, si è rivelato qualcosa di complesso. I corpi hanno una meccanica che va attivata e che, per trasformarsi, ha bisogno di un processo che non è immediato e richiede un’aderenza di pensiero a ciò che stai cercando.
Il corpo deve assumersi un vuoto, quando si tratta di compiere un gesto, seppur formale e meccanico, viene messa in campo una tensione che deve scomparire. È una pratica che ha bisogno di molta pratica.
C.K.R.: questa presa che non possiede ha bisogno di una tecnologia precisa, che se la si individua, permette di non mettere in campo la volontà. L’intuizione di fare iniziare il lavoro con una meditazione funziona proprio perché crea uno spazio tra quello che senti e quello che fai.
In termini di processo di trasmissione è una cosa complessa, specialmente in relazione alla fragilità che riscontro nei corpi oggi, nel tipo di lavoro che propongo deve essere fatta scivolare via.
I.C.: secondo te sono corpi che si difendono?
C.K.R.: sempre, al primo approccio. È un dato non un giudizio, sento che c’è un timore. È una questione che mi si pone in maniera sempre più forte. Prima del Covid stavo pensando a chi coinvolgere nel lavoro, se danzatori con cui ho già lavorato e che hanno un loro percorso o con persone molto più giovani, con meno esperienza e sviluppare un discorso insieme a loro.
Alla fine, non ho potuto mettere in atto un processo lungo di lavoro, per via della pandemia, allora ho convocato Annamaria Ajmone, Sara Sguotti e Jari Boldrini, con cui ho già condiviso progetti di lavoro. Poi ci sarò io, come jolly. Forse parteciperà al lavoro Kenji Paisley-Hortensia danzatore francese che viene dall’hip-hop ma completamente autodidatta, che ho incontrato durante un progetto di formazione a cui sto lavorando a Marsiglia.
Ho sempre pensato che dovessero essere quattro performer in scena, è un numero che si lega alla forma della sonata.
Il mio desiderio sarebbe quello di riuscire a trovare qualcosa che formalmente sia molto semplice e modulabile. Vorrei tentare di rimanere su pochi elementi, perché la questione della sobrietà per me è molto importante in questo momento, è una parola che mi interessa molto. Vorrei che questa danza fosse sobria.
S.T.: per ovviare a questa tua necessità, per come conosco il tuo lavoro e per i tempi produttivi che hai a disposizione, che al solito sono feroci, non mi sembra ci sia margine di far entrare corpi fragili.
L’idea di poter contare su corpi che conoscono il tuo lavoro e, quindi, si sentono e risultano già forti non sarebbe sbagliato.
Questa questione della fragilità è molto diffusa nei giovanissimi, e lo vediamo anche negli studenti migliori. Non si può evitare di assumere la questione della fragilità dei corpi oggi, d’altra parte tu hai bisogno di performer che di quella fragilità siano capaci di assumersene la responsabilità in scena.
I.C.: della fragilità ne discutiamo molto con Stefano, avendo a che fare con studenti universitari. È una questione generazionale, saperla registrare ed entrarci in connessione è un dato politico molto forte. Mi colpisce ogni volta sentirlo dire e capire come la paura ha lavorato in questi corpi di performer giovani, una paura sottile e pervasiva.
Paola Granato: credo che quel toccare senza possedere, la presa che non prende, che Stefano definiva un atto politico contenga la fragilità. La presa è sempre eseguita da chi è più forte, da chi spicca. Pensare alla presa come atto che comprenda tutto – umano e non umano – togliendo il focus dalla forza, credo possa includere anche la fragilità, intesa in un senso virtuoso.
I.M.: la presa che non prende mette in campo una questione teorica importante. Diciamo sempre che tutto ciò che mettiamo in campo non va posseduto ma lasciato aperto. È bello toccarlo insieme per non possederlo, farlo scorrere sia a livello di ricerca che di formazione continua.
S.T.: questa intuizione della presa, si potrebbe riverberare su altre cose: il contatto che non sposta, la caduta che non abbandona, una piroette che non piroetta, disinnescando il potere che li giustifica. L’idea che il movimento non colonizza, come avevi già fatto in Prelude, per decostruire il vocabolario in termini pratici.
¹ Ilenia Caleo è performer, attivista e ricercatrice.
Dal 2000 lavora come attrice e performer nella scena contemporanea, collaborando con diverse compagnie e registe/i, tra cui nella tempesta e Raffiche di Motus. Con Silvia Calderoni ha creato dal 2014 un atelier di ricerca mobile sulle pratiche del/^ performer. Nel 2018 partendo da Biennale Teatro hanno dato vita a KISS, progetto performativo con 23 performer (Santarcangelo Festival, CSS Udine).
Filosofa di formazione, ha svolto un dottorato di ricerca su corpo e performativo tra performance studies e filosofia politica all’Università La Sapienza di Roma. È assegnista di ricerca presso IUAV con una ricerca sui saperi corporei. È coordinatrice del Modulo Arti del Master Studi e Politiche di Genere di Roma Tre e collabora con il gruppo di ricerca del progetto quinquennale “INCOMMON. In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959–1979)”, ERC Starting Grant.
Attivista del Teatro Valle Occupato e nei movimenti dei commons e queer-femministi, è cresciuta politicamente e artisticamente nella scena delle contro-culture underground.
² Stefano Tomassini ha studiato teatro e danza. È senior researcher per il progetto ERC Incommon, diretto da Annalisa Sacchi; ha insegnato a Ca’ Foscari di Venezia e all’Università della Svizzera Italiana, ed è consulente per la danza per i programmi di LuganoInScena al LAC. È stato Fulbright-Schuman Research Scholar (2008–2009), Scholar-in-Residence all’archivio del Jacob’s Pillow Dance Festival (2010) e Associate Research Scholar all’Italian Academy for Advanced Studies in America della Columbia University (2011). Dal 2013 al 2016 ha collaborato ai programmi del settore Danza della Biennale di Venezia. Dal 2007 collabora con Choreographic Collision, laboratorio coreografico sulla cui attività ha curato un catalogo per Marsilio (2011). Nel 2016 ha ottenuto una residenza di studio presso Scenario Pubblico — Centro Nazionale di Produzione della Danza di Catania con un progetto di ricerca sulla ricostruzione del repertorio in danza. Fa parte del progetto internazionale Commedia dell’Arte in Context (Cambridge University Press, 2017).
Ha pubblicato l’edizione critica del Prometeo di Salvatore Viganò (Premio Marino Moretti), e i libretti italiani, musicali e di danza, attorno alla figura di Adone (Pacini Fazzi); una monografia su Enzo Cosimi (Zona), gli scritti coreosofici di Aurel M. Milloss (Olschki) e, con Alessio Fabbro, le lezioni del pioniere della danza moderna americana Ted Shawn (Gremese). Nell’area degli Italian Studies si è occupato di Paolo Beni, Lodovico Dolce, Pomponio Torelli, della metafora del teatro come peste nella letteratura occidentale, di Gian Pietro Lucini e Elio Pagliarani. Ha curato per Treccani (Enciclopedia italiana) una raccolta delle opere di Carlo Goldoni e, sempre per Treccani, un saggio sulla ricezione teatrale e musicale del poema di Ludovico Ariosto. Più di recente, ha curato i testi per il catalogo Hofesh Shechter Project (Silvana) nonché quelli per Otolithes, progetto coreografico di Lorena Dozio (Casagrande). Fonte.