Cosa vuol dire per te abitare uno spazio in un periodo di residenza?
Per me significa partire da quello che è lo spazio negativo dell’immagine, prendendo ispirazione dal contesto e dall’ambiente. In altre parole, non solo creare partendo da uno spazio dato —nel mio lavoro sono spesso portata a fare il contrario, creando l’ambiente in base al soggetto— ma anche entrare in relazione con quello che lo spazio ha da offrire, sia in termini materiali che immateriali.
Come definisci lo spazio del tuo lavoro e della tua ricerca? Cosa indagherai in questa occasione?
Definire il mio lavoro è un esercizio faticoso e innaturale. Mi alleno da anni ad attraversare i generi senza legarmi a una maniera. Mi inserisco diagonalmente, di traverso, queer, anche nelle forme fotografiche. In questa occasione non vorrei quindi indagarne una sola, quanto prendermi cura del mio lavoro accogliendo l’imprevisto.
Tre parole per definire cura
Rallentare, ammorbidire, stare, accogliere.
Claudia Pajewski (L'Aquila, 1979) è una fotografa professionista specializzata in ritratti, street e fotografia di scena. Collabora tra Roma e Milano con case discografiche, agenzie di comunicazione, aziende ed enti culturali. La sua ricerca visiva si concentra sui temi dell’identità di genere, del teatro contemporaneo e delle trasformazioni urbane. Nel 2017 pubblica il suo primo libro, “Le mani della città”, edito da DRAGO Publisher.
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