Caro Alessandro,
quando tu e le/i performer siete arrivati, ormai un anno fa, in Pelanda era un tempo altro. L’incontro con i corpi in sala è stato per noi, per i nostri occhi e la nostra pancia, quello che molti definiscono “evento”. È stato forse quello il momento in cui siamo state in grado di metabolizzare quel prima e quel dopo che ha segnato il nostro lavoro, quando fuori era in parte tutto fermo per le festività in tempo di pandemia e qui qualcosa accadeva.
Assistere all’inizio di una ricerca è un momento molto prezioso. Essere davanti a una materia in continuo divenire, a piccoli fuochi che si accendono e trovarsi ad osservare con la curiosità di immaginare cosa rimarrà acceso e cosa evolverà.
Hai deciso di lavorare in controtendenza rispetto al periodo pandemico, sulla prossimità dei corpi che più avanti sarà prossimità tra il corpo dei performer e quello del pubblico. Che cosa ti interessa di questa relazione?
Riuscire a seguire alcuni momenti di lavoro, da esterni, permette di vedere la trasformazione su più livelli. Quella del corpo, quella del gruppo di lavoro, quella dello spazio. È qualcosa che afferisce sia alla sfera dell’inafferrabile e del sottile, sia a una dimensione estremamente pratica. Alle volte, sembra essere qualcosa di contagioso: quando si frequenta lo spazio della sala anche solo per un breve periodo, il corpo di chi guarda si trasforma. Ci si adatta, si sceglie uno spazio e lo si occupa; è una questione importante: entrare, capire come posizionarsi e accogliere un invito. Si tratta di sintonizzarsi su una frequenza, precisa e puntuale; ogni passaggio qui al Mattatoio ne segna una diversa, ed è interessante imparare a non stonare.
“L’aspetto in cui l’amplesso e la lettura s’assomigliano di più è che al loro interno s’aprono tempi e spazi diversi dal tempo e dallo spazio misurabili” questo scrive in Se una notte d’inverno un viaggiatore Italo Calvino. Non ti sembra che si potrebbe sostituire la parola “lettura” con “performance”? Sembra diretta la connessione al momento in cui una performance riesce, in cui accade qualcosa in un tempo e in uno spazio sospeso. Il mondo si ferma e in quel momento si ha la consapevolezza che non sei più la stessa persona che ha varcato la soglia del teatro, del museo o della galleria.
Il tempo dell’amore e quello performativo coincidono. Ed è proprio al tempo, alla capacità che hai di lavorare con, ma anche contro, che si pensa quando si attraversano i tuoi lavori, quasi una manipolazione da alchimista unita all’esattezza del fisico quantistico. Chissà se in qualche modo risuona in te e nella tua pratica questa visione e percezione.
In questo tuo ultimo progetto, che ha visto la sua prima tappa di ricerca qui al Mattatoio, il tempo si dilata e, almeno nel titolo, interroga anche la dimensione onirica. In che direzione sei andato e stai andando nello sviluppo del lavoro? Come affronterai questi aspetti?
Digitando su Google tempo e sogno la prima cosa che viene fuori è la pagina Wikipedia dedicata al Tempo del Sogno o Mondo del Sogno della mitologia aborigena australiana. L’epoca antecedente alla formazione del mondo è, secondo questa tradizione, denominata così. Non è però un’epoca appartenente al passato ma una dimensione accessibile proprio attraverso il sogno, strumento fondamentale per comunicare con gli spiriti.
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Carissime Paola e Ilaria,
sono lusingato. Sentire che l’effetto del nostro incontro stia ancora riverberando da qualche parte è qualcosa che non do assolutamente per scontato. Grazie per avermi riportato a quel momento e per questa bellissima lettera.
In Dream il corpo del performer si muove letteralmente su due piani. Gli occhi si aprono sulla realtà immaginaria che la mente produce: ricordi, scenari immaginifici, sogni. Il corpo invece ha i piedi piantati nel qui e ora. Lo spettatore che attraversa quello sguardo cieco crea un’interferenza. Le dita delle sue mani possono essere trasformate in foglie di ramo o occhi di lumaca nella mente degli interpreti: se il performer le tocca (come per uno sbaglio al telefono), il presente contamina il sogno e il corpo dell’interprete si desta sonnambulo.
È corretto, il tempo dello spettacolo è quello del fare l’amore - parlo dal punto di vista del danzatore ora.
Mentre organizzo la forma dei miei polpastrelli immagino di manipolarti come solo una carezza potrebbe fare. Se il corpo e il respiro dello spettatore/visitatore si sintonizzano sulla mia danza è possibile che il tempo s’allarghi e s’allaghi. Accade quando il campo è scevro da ogni forma di giudizio verso sé stessi. E quindi, quasi mai (almeno nel mio caso).
Eppure, a volte, mentre muovo le dita a rallentatore, sospetto che tu mi stia seguendo. Allora immagino un unisono tra il tuo desiderio e il mio. La fiducia in ciò che faccio supera per qualche istante la paura che ho di te, e m’allago di nuovo.
Quando t’incontro per la prima volta, sono interessato maggiormente al piacere che credo io possa darti. Ai centimetri che mi concederai lasciandomi entrare. Le luci si riaccendono; tu applaudi. Vedo per la prima volta il tuo viso: è sempre un po' meglio o peggio di ciò che mi aspettassi.
Sono felice, sono deluso, il tempo del sogno è finito.
Porto avanti questa ricerca perché m’interessa tutto ciò che accade prima di questo momento.