FREAKS
un progetto liberamente tratto dal film “Freaks” di Tod Browning
drammaturgia e regia Federica Rosellini
performers Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin
dramaturg Federico Bellini
scenografo Giuseppe Stellato
video Rä di Martino
aiuto video Arianna D’Alterio Bosio
sound designer Franco Visioli
costumista Graziella Pepe
light designer Simone de Angelis
collaboratore al movimento Sandro Maria Campagna
aiuto regia Fabio Carta
la regista ringrazia Enza di Matteo per la consulenza iconografica
Il film
Una donna barbuta dà alla luce un figlio nel carro di legno di un circo nomade. E’ una bambina. L’eccitazione è grande, i “Freaks”, suoi compagni d’arte e di vita, applaudono. Phroso, clown, alter ego dello stesso Browning dice: “è una femmina”, e poi aggiunge: “e le sta già crescendo la barba”. La bambina non si vedrà mai, protetta da un lenzuolo che la nasconde alla camera. L’iconografia è quella di una nuova Natività. Quella donna era Lady Olga Roderick, ovvero Jane Barnell, una delle più famose “Donne Barbute”, donne con ipertricosi o irsutismo, del secolo scorso, paladina dei diritti di quelli che ancora troppo spesso erano definiti “mostri”.
Questa è una delle sequenze iniziali di uno dei film più misteriosi e controversi della Storia del Cinema, spesso classificato, ingiustamente, come horror, considerato una delle pellicole ‘maledette’ per antonomasia. Capolavoro espressionista per la regia di Tod Browning, tratto dal racconto “Spurs” di Clarence Robbins, “Freaks” apparve nelle sale americane nel febbraio del 1932 scatenando reazioni violente e controverse da parte del pubblico e della critica. Dopo i primi giorni in sala il film venne censurato, in Gran Bretagna rimase proibito per trent’anni, alcune scene furono amputate. Il materiale eliminato fu distrutto, bruciato e non fu più possibile recuperarlo, anche quando, quarant’anni dopo, nel 1962, presentato al Festival di Cannes, il film venne salutato come un capolavoro. Jean Gili in quegli anni scrisse “Questo non è un film dell’orrore, è un film d’amore”, un’elegia spaventosa, un canto rabdomante. A Tod Browning i suoi contemporanei, invece, rimproverarono la scelta, rivoluzionaria, di aver chiamato per la sua pellicola attori “freak” a interpretare alcuni dei ruoli principali, corpi considerati non conformi, inadatti alla sensibilità del pubblico delle sale cinematografiche, spaventosi.
Ambientato in un circo, nel momento in cui i freak shows e le music halls sembravano ormai un divertimento da lungomare di provincia, una macchia della coscienza collettiva che si voleva candeggiare, “Freaks” segue la quotidianità di un gruppo di, così detti, “fenomeni da baraccone”, lavoratori del circo: Cleopatra, trapezista, una delle donne più belle del mondo, chiamata il pavone o la sfinge dell’aria, si prende gioco, aiutata da Ercole, il forzuto, dell’amore di Hans, nano del circo, della sua gentilezza, delle sue attenzioni, lo sposa, prova ad avvelenarlo ma la vendetta sarà terribile. Alla fine del film vedremo il suo corpo esposto, freak a sua volta, misteriosamente mutilato, quasi geneticamente mutato in “Donna Gallina”.
Il progetto di regia
Il film di Browning inizia in un Museo. Probabilmente nel Museo Barnum, il grande “Museo Americano dei Mostri”, antenato poco noto, spesso volutamente trascurato, dei nostri occidentalissimi Musei della Scienza. Un gruppo di visitatori impellicciati si muove fra statue di cera e guarda dentro buche telate in cui sono contenute creature vive. Ci fa da specchio. Sono loro i mostri, sembra dirci Browning, spiandoci, triangolando; anzi, siete voi. Da qui il lavoro della regia muove i primi passi, accompagnando i sei giovani performers in un ardito lip-sync, che decontestualizza, senza tradire, le parole della sceneggiatura, costruendo intorno ad esse lo stereotipo iperrealistico di un dramma borghese contemporaneo, acido come un Reza, cattivo e selvatico come un Fassbinder, in bilico verso il disfacimento, verso l’emersione dell’abisso come la parte iniziale di “Melancholia” di Lars Von Trier.
Non poteva essermi indifferente il fatto che questo progetto venisse presentato prima negli spazi della Pelanda, un Ex Mattatoio, e poi, a Spoleto, fra le volte di una Chiesa sconsacrata. Mi è sembrato necessario, allora, snudare lo spazio, iper-esporlo, non perdonarne la storia, obliandola, ma lasciando che le pareti tornassero a sanguinare davanti ai nostri occhi, come in un’operazione alchemica. Così spogliati questi due luoghi mi ricordavano la Oude Kerk, la Chiesa Vecchia, di Amsterdam: le sue mura esterne contro cui si riflettono i neon rossi delle vetrine delle sex workers, la sua struttura innervata e complessa, andavo cercando la “camera degli sposi” con la sua carta da pareti ottocentesca, a fiori, così fuori-spazio, fuori-tempo.
Non poteva esserci luogo più giusto, allora, isola semanticamente più corretta, per interrogarci insieme a Browning e a questo suo capolavoro lucido e, senza contraddizione, allucinato, insieme ai rebus dei suoi infiniti dettagli, sotto-pelle, sotto-traccia - come la vasca da bagno, quasi una premonizione, in cui verrà trovato morto- su cosa sia davvero Mostro, cosa Bestialità; sulla violenza che abbiamo storicamente esercitato sui corpi considerati “non conformi”, i corpi e le identità che abbiamo pornograficamente esposto e insieme negato, sfruttato, cancellato. Per dare inizio ad un viaggio intimo, politico, visionario che si domanda quale sia la possibilità concreta, curativa, vitale di abbattere la distinzione fra corpo reale e corpo immaginario - come fa Browning, in un colpo di coda, nelle ultime sequenze del suo film, con l’invenzione della sua donna gallina, presentata alla stregua degli altri corpi, elevata allo status di corpo reale. Per fare esplodere i musei della nostra memoria, usando la tecnologia, per hackerarli dall’interno, sostituendo soggetti, scenari, protagonisti, permettendo al futuro di ridisegnare un passato alternativo, inclusivo, rivoluzionario, creando una Fanta-storia degli eventi, dell’arte, dell’immaginario sacro.
Cosa sarebbe il nostro presente se i nostri presepi non fossero stati abitati da una Sacra Famiglia di Homines Sapientes ma di Neanderthal? Se la Madonna fosse stata una donna Barbuta che partoriva una Gesù bambina con la barba? Come sarebbe stato se invece di un asino e un bue a scaldare la piccola con il suo corpo, con il suo alito caldo ci fosse stato un orso - animale sacro per i popoli dell’Europa del Nord colonizzati e sottomessi dal cristianesimo, simbolo della cultura orale, per secoli incatenato, sessualizzato, ridicolizzato, come i corpi dei freaks, in spettacoli che non si interruppero neanche con la peste, neanche quando tutti gli altri teatri venivano chiusi al pubblico? E se Adamo e Eva fossero due uomini? Come sarebbe la nostra storia dell’arte, come saremmo noi, se il polittico Griffoni raffigurasse una Santa Lucia “Freak”? Se la dettagliata gestualità del Baseball, grande passione di Tod Browning, uno degli sports maschili e americani per antonomasia, fosse contaminata, corrotta, nella sua struttura interna dal vogueing, sempre americano, ma linguaggio di liberazione, gioia, riappropriazione dei corpi per le comunità trans? E se Dio, invece di essere visto nell’occhio luminoso del Sole, fosse, in una vertigine di memoria dickinsoniana, in un’eclisse?
Federica Rosellini
"Uffa, che barba! Uffa, che noia! Con questa frase si concludevano gli episodi di Casa Vianello, la sit-com televisiva che vedeva protagonisti Sandra Mondaini e Raimondo Vianello; dopo una giornata condita da episodi rocamboleschi, equivoci, comici litigi, la coppia si augurava la buonanotte con questa frase pronunciata dalla Mondaini, che diventò quasi uno slogan capace di entrare nel gergo degli italiani. Una frase che ormai associamo naturalmente a qualcosa di noioso, ripetitivo; i ragazzi spesso la utilizzano quando vengono chiamati dagli adulti a fare qualcosa che non vorrebbero fare, come ad esempio studiare. Per gli adulti, forse, è invece diventata una sorta di sentenza da applicare alla politica, quando continua a riproporci lo scenario di sempre senza alcuna novità o addirittura speranza. È una frase buffa che ci aiuta a sdrammatizzare, a volte, le miserie della vita, il non-senso del quotidiano.
È possibile che continuare gli studi dopo un triennio di Accademia, prolungarli per altri due anni, potrebbe essere un percorso da liquidare con un perentorio “Uffa, che barba!” Eppure, lo studio ricercato, scelto e voluto, che accresce ulteriormente il nostro bagaglio di conoscenze, può prepararci davvero alla prova del lavoro. Intitolare un biennio “Uffa, che barba!” non vuole essere una provocazione, ma una tematica su cui orientare due anni di studio, confronto e verifiche; due anni dedicati al tema della “barba” declinato in tutte le sue varianti: la noia, certo, ma anche le infinite barbe che popolano i testi teatrali o letterari, le favole, le barbe di personaggi realmente esistiti o quelle dei protagonisti della settima arte. Una frase ironica, quindi, che possa accompagnarci offrendo la possibilità di indagare più linguaggi e più mondi di espressione artistica."
Antonio Latella
Ingresso gratuito con prenotazione sul sito dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio d'Amico (accademiasilviodamico.it).
Le prenotazioni aprono 5 giorni prima dello spettacolo.